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foto di repertorio

IL CASO – Il latte, alimento super contaminato. Ma gli agricoltori si dicono ambientalisti

Il caso è emblematico per capire che spesso si parla di cose che nemmeno si conoscono, si affrontano tematiche e problematiche senza avere la necessaria formazione e magari si compiono azioni di cui si ignorarono le reali conseguenze.  Capita così che gli agricoltori manifestino in difesa dell’ambiente dimenticando di essere loro fra i primi inquinatori.  “Il Salvagente” ha evidenziato e certificato che il latte potrebbe essere nocivo e di rappresentare un problema per i costi ambientali legati all’allevamento intensivo. Rischi avvalorati da un’inquietante segnalazione: nel latte italiano si possono trovare tracce di farmaci cortisoniciantinfiammatori e antibiotici. Si tratta, va detto, di concentrazioni sotto i limiti fissati dal regolamento Ue, ma non proprio trascurabili quando si tratta di un alimento consumato dall’80% degli italiani, che bevono in media 52 litri di latte all’anno.
I risultati derivano dallo studio effettuato dalle Università Federico II di Napoli e di Valencia su 56 campioni di latte, integrate dal test condotto dallo stesso mensile su 21 latti comunemente venduti in Italia da Parmalat a Granarolo, da Mila a quelli a marca dei supermercati o dei discount.
E’ stata rilevata la presenza di tre farmaci in 12 campioni su 21: un antibiotico, l’amoxicillina, un cortisonico, il dexamethasone e un antinfiammatorio, il meloxicam. Solo nel latte fresco Lidl – aggiunge – è stata evidenziata contemporaneamente la presenza di tutti e tre i farmaci”.
Poi, in quattro latti (Ricca fonte, Esselunga fresco, Carrefour fresco e Parmalat Zymil fresco), sono state rilevate tracce di due farmaci e negli altri cinque campioni c’è solo un farmaco. “Anche se i livelli degli antibiotici riscontrati nel latte sono molto bassi, questo non significa che si possa escludere un rischio per il macrobiota, l’insieme dei microrganismi che popolano il nostro apparato digerente e che svolgono funzioni benefiche”, spiega Ivan Gentile, professore di malattie infettive presso la Federico II.
farmaci riscontrati sono, infatti, quelli utilizzati in massa negli allevamenti intensivi per guarire la mastite, vale a dire l’infezione alla mammella che colpisce le mucche da latte. Sottoposte a un forte stress produttivo, diventano più sensibili alle infezioni. E spesso si finisce per somministrare un antibiotico anche quando la mastite non ha ancora dato segni evidenti. Questo, però, espone sia gli animali sia chi beve il loro latte a un rischio che si sottovaluta: la resistenza antibiotica. In poche parole, il corpo non reagisce più ai farmaci, dal momento che i ceppi dei batteri si sono trasformati in organismi resistenti. Il decorso risulta così più lungo, aumenta il rischio di complicanze fino ad arrivare a esiti invalidanti e morte.
Tanto che per l’Agenzia europea del farmaco, l’uso di antibiotici negli allevamenti in Italia è 2,5 volte più alto delle media europea. Venti volte maggiore della Svezia. E per l’Istituto Superiore di Sanità (2019), nel nostro Paese la resistenza nei loro confronti rispetto a specie batteriche sotto sorveglianza risulta superiore alla media Ue. Non ci si deve stupire, quindi, se l’Italia – come emerge da uno studio condotto dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, pubblicato sulla rivista medica The Lancet – abbia il più alto numero di morti causate da infezioni resistenti agli antibiotici in Europa: oltre 10.700 decessi sul totale di 33.000. L’Organizzazione mondiale della Sanità e l’Ue continuano a guardare alla resistenza agli antibiotici come a uno dei fenomeni più preoccupanti per la salute pubblica, con le morti da super-batteri che nel 2050 potrebbero superare quelle da cancro e portare così le spese sanitarie al 2-3% del Pil mondiale ogni anno.
Dal 2017 l’Italia ha avviato un piano d’azione quadriennale contro la resistenza antimicrobica, mentre lo scorso anno è stata introdotta la ricetta elettronica veterinaria per ridurre l’uso di antibiotici senza compromettere la produttività e la salute degli animali. Una sfida comunque complicata. Come spiega il veterinario Enrico Moriconi, “se si volessero allevare le mucche secondo i loro bisogni, un litro di latte costerebbe 4 euro al litro”. Intanto Esselunga, Granarolo e Conad, informate della ricerca, si sono dette disposte a lavorare per limitare il più possibile i residui dei farmaci veterinari negli allevamenti e di conseguenza nel latte (fonte IlFattoquotidiano)

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