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PIGNATARO MAGGIORE – Università Cattolica, la professoressa Parisi promuove una serie di iniziative per ricordare l’economista Vito

PIGNATARO MAGGIORE (di Libera Penna) – Nel cinquantesimo anniversario della scomparsa di Francesco Vito,  uno dei più grandi economisti italiani del dopoguerra,  la professoressa Daniela Parisi dell’università  Cattolica di Milano,  curatrice nel 2002 di un libro sullo studioso di origine pignatarese, ha promosso una serie di iniziative per ricordare la figura dell’economista di cui è stata allieva. La professoressa Parisi ha scritto un articolo per un giornale. Il documento è  una preziosa testimonianza,  che, grazie alla  competenza e autorevolezza dell’autrice,  aiuterà a conservare il ricordo dell’insigne studioso caleno e fare conoscere la sua figura ai giovani.

La biografia di Francesco Vito: alcune pennellate (di Daniela Parisi) 

I manuali di storia del pensiero economico in genere non comprendono la considerazione del contributo scientifico di Francesco Vito e del suo ruolo istituzionale nell’accademia e tra gli economisti[1]; la povertà di riferimenti storiografici a Vito deriva dal fatto ovvio che la manualistica privilegia l’attenzione per i filoni dominanti che nelle diverse epoche sono stati identificati soprattutto con nomi e contesti scientifici non italiani e molto spesso non rileva il ruolo dei dibattiti nella formazione dei modelli. I modelli vengono ideati, perfezionati e diffusi generalmente in incubatori di riconosciuta eccellenza, che sicuramente svolgono il ruolo di attrattori e di principali diffusori di idee e di teorie, ma che, svolgendo questo ruolo, inseriscono anche università più periferiche nei circuiti più ampi e più fluidi di scambio di idee e di contatti personali. In questo senso le esperienze di studio, di specializzazione, di aggiornamento, le pubblicazioni che circolano, le istituzioni scientifiche e i convegni internazionali non sono solo veicoli di scienza ma sono elementi della costruzione del sapere e di maturazione della conoscenza. Di questo lavorìo nei manuali vi è difficilmente traccia.

L’oggetto specifico di questo articolo è la storia di come Francesco Vito, studente della provincia di Caserta divenne professore universitario di Economia nella Milano degli anni Trenta, passando anche attraverso importanti esperienze all’estero che furono finanziate dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Humboldt Stiftung, Rockefeller Foundation, and Regia Accademia d’Italia.

Vito personifica con la propria esperienza di giovane studioso di economia la tensione che è evidente nella storia del pensiero economico tra gli anni Venti e gli anni Trenta; egli fu immerso nei profondi cambiamenti in atto nella scienza economica a livello internazionale e le sue ininterrotte esperienze di scambio con l’estero costituirono una sorta di cinghia di trasmissione del sapere per l’accademia italiana. In questo senso la sua biografia costituisce un caso unico nel panorama italiano degli anni 1930s e, perciò contribuisce, secondo una prospettiva finora inesplorata, alla ricostruzione di uno spaccato imprescindibile della storia delle idee e dell’accademia del tempo.

Gli anni compresi tra il 1925 e il 1938 sono quelli che separano la sua prima laurea, in Giurisprudenza, a Napoli, dalla sua definitiva chiamata sulla cattedra di Economia come Full Professor a Milano: sono gli anni della sua formazione e del suo perfezionamento

Il giovane Francesco Vito[2], conseguito il diploma di maturità presso il Liceo di Caserta nel giugno del 1922[3], si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli.

Maturare la propria crescita in Campania in quegli anni significò entrare a diretto contatto con i problemi correlati al passaggio dell’intera regione dalla breve stagione di crescita “convulsa e precaria” del periodo bellico alla lunga fase del suo evidente deterioramento economico.

L’intero territorio, nel corso degli anni Venti, si qualificava, attorno all’estesa area napoletana[4], come regione ex industriale e fondamentalmente come meta di turismo[5] e di attività artigianali sparse, a conduzione familiare. A questo proposito, la relazione della Commissione per lo studio dei problemi generali per il dopoguerra, pubblicata nel 1918, osservò che un vero ambiente industriale non poteva dirsi esistente anche perché – commenta oggi Francesco Balletta – “non si era formato un tessuto di piccole imprese artigianali capaci di soddisfare la domanda della grande impresa, che, per molte forniture, era costretta a rivolgersi all’estero e alle imprese dell’Italia settentrionale”[6].

A fronte di questa situazione di crisi della regione, il governo fascista non si sentiva coinvolto nell’affrontare una ‘questione meridionale’, la quale veniva semmai negata o al massimo ridotta e risolta a questione di trasporti e di coltivazione della terra[7].

Indipendentemente dalla precaria situazione economico sociale generale in cui la storia economica ci dice versasse il territorio, iscriversi all’università di Napoli rimaneva, in ogni caso, in questi anni, opportunità di altissimo livello.

Significava, infatti, entrare in una tra le poche realtà accademiche nazionali che, a fronte della complessiva marginalità e perifericità delle università italiane, riusciva ad adeguarsi in molti campi del sapere agli standard di ricerca europei, a partecipare agli effetti positivi della circolazione di docenti che si erano formati e maturati anche in altri centri importanti[8] e ad acclimatarsi con posizioni scientifiche che erano spesso “fin troppo avanzate per lo stato del dibattito nostrano”[9].

In un periodo e in una realtà in cui la cultura della classe dirigente era sostanzialmente quella giuridica, anche Vito, giovane provinciale volonteroso e brillante negli studi, venne instradato verso la laurea in Giurisprudenza, l’itinerario che offriva sbocchi professionali di prestigio di tipo tradizionale.

Il diritto e la scienza giuridica si definivano in quegli anni in termini nettamente spoliticizzati e si fondavano sul metodo storico e pandettistico sistematico, mantenendo cioè il consolidato riferimento preferenziale alla tradizione tedesca. Gli obiettivi di storicità e di sistematicità venivano perseguiti ponendo al centro dello studio l’analisi degli istituti della “costituzione materiale della società” e del loro “inverarsi storico” per costruire, su questa base, i concetti e i sistemi giuridici[10].

Conseguito il 25 luglio 1925, con la votazione di 110 e lode, il suo primo titolo di laurea[11], Vito decise di proseguire gli studi. La sua intenzione era quella di comporre l’iniziale formazione giuridica con elementi che erano considerati generalmente dai contemporanei concorrenti ad essa, laureandosi, cioè, il 26 luglio 1926, in “Scienze politiche e sociali”[12].

Si può pensare che egli fosse alla ricerca di una più approfondita conoscenza degli elementi non codificati del sistema sociale concreto, di quelli cioè non solo giuridico formali e amministrativi; questo completamento è quello che gli venne infatti dal curriculum in vista della seconda laurea, che prevedeva, oltre alle competenze giuridiche ed economiche già acquisite, ampliamenti e approfondimenti di conoscenza in campo economico, di finanza pubblica, aziendale, statistico e matematico.

Si trattava per lui di proseguire lungo un itinerario che gli facesse acquisire quel tipo nuovo di strumenti indispensabili per la conoscenza “graduale, cumulativa e da tutti controllabile,…., fondata sul calcolo razionale e sulla progettualità scientifica, e che era ritenuta necessaria al nuovo tipo di società industrializzata”[13].

A completamento di ciò. Gli sembrò indispensabile risalire ancora più a monte nel processo di conoscenza, imboccando la via di una più approfondita ricerca dei fondamenti di quei fenomeni che, negli studi fin lì compiuti, aveva trovato espressi con rigore e in modo prevalentemente definitorio.

E’ così che, con una decisione atipica in tempi in cui si tendeva a distinguere  nettamente tra scienza e filosofia, Vito decise di iscriversi al corso di “Filosofia”, laureandosi, il 14 luglio 1928, con voto 105/110. L’esigenza che lo motivò a questa scelta fu quella di proiettarsi verso una conoscenza a carattere universale. La sua tesi trattava della dottrina della nazionalità nel pensiero filosofico-politico del Gioberti, discussa con i professori Antonio Aliotta (1881-1964), Adolfo Amodeo (1889-1946) e Francesco Montalto[14].

Nel frattempo, Vito si era iscritto “con molto riserbo” al Partito Nazionale Fascista” (1927): come apprendiamo da una sua lettera inviata a padre Gemelli l’8 novembre 1929 la scelta gli fu consigliata caldamente dalla dirigenza dell’Azione Cattolica napoletana per “speciali circostanze” in cui egli si era trovato nell’affrontare “situazioni delicate” nell’Azione Cattolica stessa[15].

Grandi personaggi danno corposità e spessore all’insegnamento delle discipline economiche a Napoli in quei primi decenni del Novecento[16]. Vito frequenta le lezioni di Augusto Graziani (1865-1944), che è a Napoli dal 1898 nella facoltà di Giurisprudenza, quelle dell’economista matematico Luigi Amoroso (1886-1965) e si applica allo studio del ponderoso manuale di Scienze delle Finanze di Francesco Saverio Nitti[17].

Una ulteriore impronta nell’impostazione generale della prospettiva di ricerca e nei confronti delle tematiche metodologiche viene a Vito dai filosofi della facoltà che egli frequenta in qualità di studente già maturo.

Napoli era un centro filosofico importante in quegli anni; il congresso di filosofia che vi si tenne nel 1924 aveva radunato i più importanti nomi italiani che erano intervenuti sui molteplici temi caldi sul tappeto.

Molte le figure autorevoli con cui egli entrò in diretto contatto: tra questi, Adolfo Omodeo, storico e filosofo, allievo di Giovanni Gentile. Alla metà degli anni Venti, Omodeo stava sensibilmente avvicinandosi alle posizioni di Benedetto Croce, diventandone uno dei collaboratori più significativi, elaborando un indirizzo di studi “umanistico non provvidenzialistico”, e affiancando Croce quanto ad orientamento liberale e fortemente antifascista[18].

Sicuramente Vito fu suo allievo nel corso di Storia del cristianesimo; erano lezioni che informavano gli studenti al “senso della concreta vita storica” e della “centralità della coscienza dell’individualità nell’agire storico”[19].  La sua visione della vita umana faceva perno sull’idea della “libertà responsabile che crea la nuova storia e con ciò stesso segna il limite e ulteriormente definisce il valore della storia passata”. La storia, nella sua concezione, era opera di uomini e della loro “vivente coscienza”[20]: il richiamo alla religione, accanto alla storia, era forte perché attraverso questa si fa esperienza concreta della storia: la storia è, infatti, opera della “vivente coscienza” degli uomini[21].

Nella stessa facoltà stava iniziando il proprio percorso anche il filosofo ‘sperimentalista’ Antonio Aliotta, avverso al neoidealismo e particolarmente attento alle esigenze di rigore metodico, il quale approderà ad “una vera e propria filosofia dell’azione”. Alcuni decenni dopo, ripercorrendo il proprio itinerario scientifico, egli stesso scrisse di aver elaborato una concezione alternativa rispetto all’egemonia idealistica e al realismo tradizionale, in base alla quale:

 

La realtà è l’atto stesso  di esperienza che ha due aspetti distinti, ma sempre uniti, il soggettivo e l’oggettivo… Non ha senso parlare di un soggetto in sé o d’un oggetto in sé, né di monadi solitarie fuori di questa relazione. L’io, il mondo e le varie anime non esistono che nella sintesi concreta dell’esperienza come momenti distinguibili, ma inseparabili del suo processo[22].

 

Dalla cattedra napoletana si insegna che la conoscenza è relazione tra soggetto e oggetto, è un processo complesso di esperienze composto di sensazioni, di percezioni e, sulla base della percezione di relazioni spazio-temporali, di elaborazione di concetti scientifici. Questa impostazione non è definibile empirista, ma ricerca di “nesso di relazioni tra concetti”. In questa linea, la conoscenza scientifica non ha come fine il produrre leggi generali ma di esse “si serve per intendere i processi reali nel loro svolgimento concreto”[23].

Ciò che risalta a Napoli, ma forse anche altrove in Italia[24], è che la filosofia non è più esclusivamente “assorta” in studi avulsi dalle problematiche del concreto lavoro scientifico ma si apre, pur sulla difensiva, a questioni nuove: si occupa di queste questioni nuove pur rimanendo però estranea al discorso scientifico[25] a cui si avvicinò “con presunzione e disprezzo” aiutati in questo dagli scienziati stessi.

Nel bagaglio complessivo di questa fase formativa della biografia di Francesco Vito, entrò anche la sua partecipazione al clima, particolarmente vivace e propositivo, della vita del cattolicesimo campano.

La cattolicità italiana stava attraversando una fase di non completa chiarezza sulla propria identità; era evidente la difficoltà di individuare una chiara linea di interpretazione della realtà; emergevano tentativi di elaborare vie originali per opporsi tanto alle rivendicazioni dei socialisti quanto alle irrisioni dei liberali, sia negli anni in cui si stava spianando velocemente la strada alla ‘soluzione’ fascista, sia in quelli in cui il fascismo “come un Giano bifronte” attraeva e respingeva gli esponenti della cultura economica italiana; la difficoltà nell’affrontare con chiarezza il tema e la realtà dell’economia corporativa è evidente: da un lato un certo tipo di corporativismo – inteso come sistema di rappresentanza e di gestione democratica degli interessi di base – era congeniale all’esperienza tradizionale cristiana, dall’altro però non si accettava l’organizzazione corporativa “deformata” dal fascismo, come affermò Angelo Mauri, direttore negli anni Venti dell’Istituto di Economia della Cattolica [26].

Il giornale cattolico napoletano La Libertà si poneva a sostegno del Partito Popolare Italiano il quale stava vivendo una fase di impegno per un rinnovamento del Mezzogiorno che venisse dal Mezzogiorno stesso, una stagione di intensa attività parlamentare soprattutto attorno ai problemi dell’agricoltura e della riforma agraria, per riscattare i diritti della piccola proprietà e dei lavoratori della terra[27].

Il movimento cattolico italiano in generale, come del resto quello europeo, era attivo e di ciò sono indicativi i contenuti e i dibattiti delle Settimane Sociali. Queste erano le occasioni privilegiate per leggere la realtà alla luce dei risultati della scienza e analizzare il rapporto tra questa lettura e il Magistero sociale della Chiesa; ed erano le sedi di formazione della coscienza sociale e politica dei cattolici. Gli economisti che vi intervennero più autorevolmente nel corso degli anni Venti furono Antonio Boggiano Pico, Angelo Mauri e Jacopo Mazzei, tutti studiosi di buon livello, non certo carismatiche ma tutte, ognuna a suo modo, critiche nei confronti del fascismo. Sotto il profilo del numero e degli interventi, importante è la presenza dei docenti della Cattolica alle Settimane sociali: la “giovane” Cattolica sta diventando, insomma, un “importante organismo”.

Una di queste Settimane, la XII, si tenne 20-25 settembre 1925 proprio a Napoli, dove Vito si era da poche settimane laureato in legge. Trattava di Principi e direttive in ordine alla scuola, ai problemi economici e all’attività politica e fu una delle più interessanti perché “emblematica delle tensioni, dell’ambivalenza fra consenso e dissenso che caratterizzano il mondo cattolico italiano”[28].  Il discorso inaugurale di padre Agostino Gemelli lanciò l’appello perché si indagasse in vista di una “soluzione cristiana” ai problemi della scuola, della società e dell’equilibrato rapporto tra azione cattolica e azione politica. Le opinioni espresse a riguardo furono ambivalenti quando si faceva riferimento alle posizioni governative sul tema della scuola e incerte sui temi economici.

C’era indubbia consonanza tra i temi che coinvolgevano i filosofi della facoltà napoletana e le istanze espresse nel corso della Settimana Sociale del 1925 sul tema del rapporto, non dissidio, tra scienza e fede.

La mia specifica competenza, estranea alla storia del pensiero filosofico, mi impedisce di andare al di là di questa superficiale osservazione e di specificarla più approfonditamente. Il riferimento a questa realtà scientifica mi è parso indispensabile perché contribuisce a comporre il quadro del clima culturale e scientifico in cui si formò Francesco Vito, studente attivo anche nel Movimento Cattolico.

A questo punto, siamo in possesso di elementi sufficienti per immaginare il dottor Francesco Vito, in possesso di tre lauree, come un giovane provinciale, poco uso ad uscire dai confini di una vita fino a quel momento limitata dalle condizioni economiche non agiate della famiglia, caratterizzata dall’impegno nel mondo cattolico e orientata al principale obiettivo di riuscire negli studi.

Egli era un giovane che da liceale ben informato era diventato, a Napoli, un laureato certamente più formato e più colto della media dei suoi compagni, e sicuramente anche abituato dal particolare clima dell’accademia napoletana, a farsi curioso verso il nuovo.  Monsignor Pietro Del Prete, il personaggio di spicco del movimento cattolico campano già amico di Giuseppe Toniolo, in stretto contatto, tra gli altri, con Luigi Sturzo, Guglielmo Alliata[29], Filippo Pacelli, lo indirizzò verso la specializzazione all’estero[30], raccomandandolo a padre Agostino Gemelli.

Questa opportunità di trasferirsi in Università Cattolica, a Milano, per poi procedere verso altri centri di specializzazione in economia, si concretizzò per Vito nel 1929, quando ottenne la borsa di studio “Francesco Ellero” per il perfezionamento in studi economici. Monsignor Del Prete dovette insistere perché il rettore Gemelli lo accogliesse a Milano. Le complesse vicende legate al concorso per questa borsa di studio e che videro Francesco Vito competere con il più maturo Giovanni Demaria, laureatosi a Torino, sono documentate nelle carte dell’Archivio dell’Università Cattolica. Soffermarsi nuovamente sull’argomento non aggiungerebbe nulla rispetto a quanto la storiografia ha già ricostruito[31].

Il collante tra Gemelli e Del Prete era dato dalla comune appartenenza alla compagine militante del cattolicesimo italiano, dal riferimento a maestri e ad appuntamenti comuni[32], dalla volontà condivisa e perseguita con strumenti diversi di scuotere il corpo dei cattolici dalla “quiete del Mar Morto”[33].

Oltre a questo, però, c’era anche un altro genere di consonanza tra il clima intellettuale di Napoli e di Milano negli anni Venti: la varietà e l’ampiezza delle tematiche dibattute e della letteratura circolante, agitavano e rendevano i due mondi in qualche modo inquieti, sicuramente vivaci e non assopiti sulla ripetizione delle ortodossie.

Il tessuto della Cattolica era fortemente permeato degli elementi scientifici che discendevano dalla specifica esperienza del suo Rettore, padre Gemelli, allievo di Camillo Golgi all’Università di Pavia. Gemelli considerava la facoltà di filosofia il perno dell’impostazione della sua università e inserì nell’ordinamento accademico un vero e proprio piano di sviluppo della psicotecnica, attraverso l’attività del Laboratorio di biologia generale e di cosmologia. Questa scelta si configurava come una chiara espressione dell’orientamento culturale dell’Ateneo che sviluppava la ricerca nella direzione metodologica del rapporto tra scienza e filosofia – nel caso specifico la filosofia neoscolastica[34].

Dal canto loro, gli scienziati sociali della Cattolica erano attratti dall’analisi della natura e delle origini del capitalismo e ciò li instradava allo studio storico delle sue radici e a quello teorico delle tendenze del suo sviluppo; questo interesse generale si traduceva concretamente nell’analisi economica delle trasformazioni del sistema, in particolare del diversificarsi delle dimensioni delle imprese, dell’introduzione massiccia  di tecnologia, dell’emergere dei fenomeni di trust, accordi, sindacati, e della forma di espressione degli interessi da parte dei corpi sociali intermedi.

Era questo un sentiero di riflessione debitore in larga parte della tradizione tedesca, con i suoi accenti al ruolo degli enti intermedi e delle organizzazioni, con la sua tradizione storica in tema di assistenza, di cooperazione e di credito; con la sua costante preoccupazione per le questioni del metodo.

Riferimento alla riflessione storica e sociale di lingua tedesca non significò in questi primi decenni del Novecento solo riferimento ai temi cari alla tradizione ‘cattolica’[35]. Si erano infatti formati sulla tradizione tedesca anche gli economisti dell’ambiente laico del Laboratorio torinese, Federico Marconcini e Giuseppe Prato, i quali negli anni Venti, passarono da Torino a Milano, all’Istituto di scienze economiche della Cattolica, diretto prima da Angelo Mauri, specializzatosi in ambiente tedesco, con Gustav Schmoller, Adolf Wagner e Endemann[36], e poi da Amintore Fanfani.

Questi itinerari di specializzazione, molto comuni per i laureati italiani che si avviano alla carriera accademica tra Otto e Novecento, creavano familiarità anche con la nuova teoria economica degli austriaci – Karl Menger, Eugen von Böhm-Bawerk, Friedrich von Wieser, Ludwig von Mises; creavano dimestichezza con l’analisi della struttura del mercato nei suoi diversi aspetti ma anche con il concetto di utilità secondo una prospettiva che non escludeva gli obiettivi sociali degli agenti; fecero conoscere in Italia il dibattito teorico monetario, presentando i contributi di Joseph Gruntzel, Ludwig von Mises, Gustav Cassel, and Karl Diehl.

La conoscenza della tradizione economica tedesca aprì gli scienziati sociali italiani anche alle diverse fasi del dibattito sull’idea di ricchezza e di agente moderno, attraverso lo sviluppo degli studi sombartiani prima sul socialismo, poi sul rapporto tra economia e morale, infine sullo sviluppo del capitalismo e sul formarsi della mentalità borghese.

Attraverso la “Rivista internazionale di scienze sociali”(RISS) della Cattolica si iniziò a conoscere il contributo di tanti economisti europei anche di alcuni nordamericani, tra i quali Irving Fisher, John Bates Clark, e Thornstein Veblen.

Questa serie di informazioni, non deve indurre a concludere però che tramite la letteratura di lingua tedesca entrò in Cattolica tutto lo spettro possibile delle maturazioni disciplinari. Era soprattutto attorno ad alcuni temi – quelli teologici e filosofici sulla definizione del concetto di persona e sul rapporto tra scienze sociali ed etica, quelli sui caratteri del sistema capitalistico – che i docenti della Cattolica partecipavano al dibattito internazionale.

Senza entrare a questo proposito in dettaglio, si ricorda che alla centralità di Monaco per la cattolicità europea per tutta la seconda metà dell’Ottocento, nel Novecento va sostituendosi quella di Leuven, con il suo centro di studi filosofici, antropologici e psicologici.

Certo è che sia a Napoli che a Milano, in questi anni Venti, l’attenzione degli studiosi si concentrò e si diresse, non sempre in modo ordinato e non sempre con risultati continuativi, verso gli elementi di dinamismo del sistema, verso ciò che di nuovo, irreversibilmente diverso dal vecchio, caratterizzava il profilo dell’uomo e della società. Si respirava, insomma, una nuova sensibilità scientifica.

A Napoli, Vito si era formato ad una prospettiva novecentesca nello studio del fenomeno, la prospettiva secondo cui la conoscenza richiede non di cercare solo la verità nei dati che emergono dalle ricerche empiriche, ma di adottare più punti di vista.

Da questa università era già partito, finanziato da Rockefeller Foundation per sedi universitarie europee ma anche alla volta degli Stati Uniti, terra simbolo del nuovo e di un mondo proiettato verso il futuro, uno specializzando in studi economici appena più vecchio di Vito: Luigi De Simone, che si era laureato nel 1921 e che dopo molte traversie e un impiego a Ginevra all’International Labor Organization, finalmente dopo la II Guerra mondiale tornò a Napoli, chiamato dalla Facoltà di Economia Marittima dell’Istituto Navale[37].

A queste opportunità Francesco Vito era preparato, quando salì a Milano: egli aveva acquisito a Napoli l’abitudine al confronto tra diverse prospettive; ed era pronto a perfezionare le proprie conoscenze economiche senza abbandonare le sensibilità acquisite da filosofo e da giurista.

Forse nella mente di Monsignor Del Prete, suo mentore, si profilava l’idea di una scienza dell’economia sociale di stampo weberiano e Milano rappresentava in Italia la sede più adatta per proseguire gli studi in questa direzione[38]. In Cattolica, la presenza di padre Gemelli sembrava garantire che il clima fosse aperto e pronto a lottare contro il prevalere di “certa timoratissima mentalità”. E’ stato Giovanni Demaria – che peraltro intratteneva in quegli anni un rapporto non facile con l’ateneo dei cattolici – ad esprimere questa convinzione, senza tentennamenti, in occasione di una conversazione a carattere autobiografico del 1995[39].

E’ realistico mantenere la convinzione che Vito a Milano fosse stato, in un certo senso, catapultato dal suo vescovo, attraverso le trame della rete interna al mondo cattolico. Senza dubbio Del Prete era un intelligente indagatore della personalità umana, perché fu insistente nel raccomandare a padre Gemelli il suo giovane compaesano, “in tutto affidato” a lui; Del Prete non intendeva che venissero sprecate risorse intellettuali: “l’avvenire del giovane non va rovinato”, e le pressanti insistenze, concentrate in pochi mesi del 1928, convinsero padre Gemelli a prendere in consegna Vito.

Vito, ancorché plurilaureato, fece il proprio ingresso in Cattolica, verosimilmente, senza piena consapevolezza né di questa ricchezza che gli veniva dagli studi napoletani, né degli elementi di continuità tra l’esperienza passata e quella che si accingeva ad intraprendere.

Così Vito entrò nell’Istituto di Scienze economiche diretto da Angelo Mauri, il quale dopo la laurea a Torino e le esperienze di studio in università tedesche, era stato chiamato in Cattolica sia per la stima che si era guadagnato come accademico presso il Laboratorio torinese diretto da Achille Loria, sia per la sua “qualificata posizione” nel movimento cattolico, movimento le cui istanze aveva concretamente rappresentato e difeso come deputato e come Ministro dell’Agricoltura.

Il rettore Gemelli era un rigoroso sostenitore della sintesi aggiornata delle “convinzioni intorno alla esistenza e alla natura di Dio, alla esistenza e alla natura del mondo, alla esistenza e alla natura dell’uomo”; rigettando vecchi modelli di civiltà e di società civile, e dimostrava una “attitudine progettuale che lo sospinge[va] irrimediabilmente verso il futuro”. Gemelli era un convinto difensore della scienza positiva, che forniva i dati, che sperimentava, ma nel contempo era anche un sostenitore dell’importanza della storia. Scienza positiva e storia erano i due campi in cui erano state raggiunte “decisive e nuove conquiste del pensiero moderno” e perciò erano “i titoli per i quali si deve guardare a questa nostra epoca con ammirazione e con gratitudine”;, perchè hanno portato la “concretezza di visione che mancava al mondo antico”[40].

Alla luce di questo, la sua “inamovibilità dottrinale” svolse il ruolo di “robusto sostrato” che difendeva dalla mondanità, facilmente pagana e totalizzante, e si traduceva in “inesauribile brama conoscitiva”, fertile per “conquistare il futuro, innestando sul tronco della modernità valori antichi…”.

In questo senso, allora, la lotta di Gemelli non fu mai contro la modernità in se stessa ma più precisamente contro i suoi frutti filosofici impregnati di “schiavitù della materia”, di “soggettivismo empirista”.

Lavorare sotto la guida di Gemelli, accanto a Mauri, Uggè, Boldrini, significava inserirsi nella modernità, diventare uno studioso moderno, cioè non essere ancorato ad una visione naturalista, scettica e individualista[41], bensì far propria quella “modalità di presenza disinvolta e sanguigna nei punti vitali della società” che si viveva nell’ateneo di padre Gemelli[42].

Vito utilizzò i fondi della borsa di studio “Francesco Ellero” per perfezionarsi in economia a Monaco. Da una lettera che inviò ad Angelo Mauri il 27 novembre 1929, si apprende che il suo tutor a Monaco fu Adolf Weber, studioso della teoria della localizzazione industriale e di sociologia culturale, e che il tema attorno a cui iniziò la propria ricerca fu quello dei sindacati industriali[43] e con specifica attenzione per i rapporti tra concentrazioni industriali e progresso tecnico. A Monaco frequentò i corsi di storia economica e di statistica e delle assicurazioni per tre semestri approfondendo i temi dello sviluppo dell’alta finanza europea, della nascita del capitalismo moderno, e dello sviluppo della speculazione[44].

I ragionamenti vitiani sui grandi mutamenti nel settore industriale e sull’evoluzione del sistema concorrenziale risentivano anche della preoccupazione schumpeteriana di adeguare la teoria alla prassi, e sottolineavano l’importanza di considerare l’efficacia, in fase di depressione, delle restrizioni alla concorrenza tramite accordi; ciò permetteva di evitare la caduta dei prezzi e della produzione, e la conseguente uscita dal mercato di molte imprese.

Grazie ad un ulteriore finanziamento ottenuto dalla Humboldt Stiftung[45] si trasferì per un trimestre a Berlino dove iniziò il lungo rapporto di lavoro con Edgar Salin, cementato dal comune interesse per la storia del pensiero economico. A Berlino frequentò corsi di statistica di A. Winter, e le esercitazioni di livello avanzato di teoria economica tenute da Friedrich von Gottl-Ottlilienfeld, e di politica sociale e industriale coordinate dal professor Göetz A. Briefs[46]. Gli attestati rilasciati dai docenti sono molto lusinghieri nei confronti di Vito.

Da questo volo d’uccello sui due anni di specializzazione in Germania si possono trarre alcune conclusioni inerenti l’approfondimento da parte di Vito di concetti e di novità sia teoriche sia della realtà istituzionale delle società contemporanee[47]. Ciò che mi preme sottolineare è però un aspetto di carattere generale: Vito maturò questa ampia e approfondita conoscenza tenendo conto dei contributi di economisti di diverse nazionalità, valorizzando la maturazione scientifica che lo scambio tra accademie consentiva.

Niente si rivelò più utile di ciò per solleticare la curiosità dello studioso che nel frattempo aveva pubblicato le sue prime ricerche[48] ed era stato nominato assistente volontario per l’anno 1931-32 nell’Istituto di Scienze economiche della Cattolica. La nomina gli venne confermata anche per l’anno successivo, nella nuova Facoltà di Scienze politiche, economiche e commerciali, che precedentemente era Scuola di Scienze politiche, economiche e sociali.

Nel dicembre 1932 ottenne la Libera docenza in Economia politica depositandola presso l’Università Cattolica [49]. Ma nel 1932 in realtà egli, essendo stato selezionato per una borsa di studio da Rockefeller Foundation, risiedette a Londra prima di salpare per gli Stati Uniti, per affinare la competenza linguistica e per continuare alla London School of Economics il proprio progetto di ricerca su trust, cartelli, e accordi industriali.

Arrivò alla London School of Economics and Political Science nel gennaio 1932, “registered as a reaserch student … pursuing investigations under the supervision of Professor von Hayek”[50]. Si era nel pieno del rinnovamento degli edifici e della struttura che Beveridge aveva programmato nel corso degli anni Venti e che stava realizzando con  finanziamenti ottenuti da varie istituzioni tra cui anche Memorial Fund e Rockefeller Foundation[51].

Vito rimase a Londra fino a fine luglio 1932 e, come scrisse a Jacopo Mazzei, tornò in Italia

non senza un po’ di rammarico, perché ho l’impressione che mi tocca lasciare Londra proprio quando per le conoscenze fatte, qualche progresso nella lingua e la conoscenza dell’ambiente, il soggiorno cominciava ad essere realmente proficuo[52].

Tra il 1930 e il 1932  Vito aveva pubblicato diversi saggi su cartelli e intese industriali e commerciali che, egli scrive, si verificavano in Germania e Stati Uniti dalla fine del secolo XIX perché lì – come conseguenza dell’ingigantirsi dell’impresa che ha introdotto tecnologie sofisticate e impianti non adattabili ad usi diversi – non si rivelano più applicabili le regole del gioco concorrenziale. E’ mutata la struttura del sistema produttivo che vede l’emergere di poche e selezionate imprese che influenzano il mercato, rendendolo instabile e obbligando le poche imprese rimaste a fondersi o ad agire in base ad accordi per sopravvivere al processo di evoluzione cui non hanno saputo reggere individualmente. Questi mutamenti non impediscono alle imprese di innovare: anzi, i cartelli e le intese permettono di abbassare il rischio degli investimenti in innovazioni, agevolano il passaggio delle informazioni e la collaborazione tra esperti che in piccole imprese non  troverebbero posto; anzi, consentono alle piccole imprese di aderire ai cartelli per non tracollare dopo una fase di ristagno.

In Italia le intese furono stabilite inizialmente, alla fine del XIX secolo, per aumentare le economie di scala e alzare il livello dei profitti; ma anche qui, dalla seconda metà degli anni Venti, le intese furono praticate principalmente, come altrove, per porre rimedio ad errati investimenti, a eccessi di capacità produttiva.

Anche le intese internazionali hanno come scopo quello di attuare una politica comune dei prezzi, hanno quindi durata limitata e sono stipulati tra imprese dello stesso ramo produttivo e in primo luogo per superare le barriere valutarie e quelle dovute ad eventuali politiche autarchiche e per porre rimedio agli effetti della crisi del mercato dei capitali. I cartelli, che hanno lo scopo primario di sostenere i prezzi ad un livello stabile e magari anche complessivamente più alto di quello di concorrenza, consentono anche di offrire beni a prezzi differenziati in diverse aree e quindi anche una azione di dumping; alle volte si sono sostituite ai governi nello stabilire accordi economici internazionali, anche in operazioni di clearing, nella confusione in cui il sistema dei cambi si trovava a causa dell’inefficienza del Gold Exchange.

L’aspetto più interessante dell’analisi di Vito è la netta distinzione tra cartelli e fusioni. Esse però si manifestano in presenza di analoghe condizioni, cioè fondamentalmente in presenza di un sistema in cui il mercato assume un assetto sempre più monopolistico; cartelli e fusioni spesso si intersecano e si combinano, perché nella realtà economica monopolio e concorrenza non sono antitetici e la vita economica non è regolata né dall’uno né dall’altro anti teticamente, ma da combinazioni.

Tanti altri interrogativi in merito si erano aperti nella mente di Vito. Egli, fin dal 1930, aveva notato che non vi era una differenza sostanziale  tra l’azione delle Trade Association americane e i cartelli europei che in ogni caso erano guidati da interessi economici cioè prevalentemente per adeguarsi alle variazioni della domanda, per evitarne gli effetti disastrosi in termini di calo della produzione.

E così, nonostante gli venisse affidato per l’a.a. 1933-34 l’insegnamento di Economia industriale, avvertì indispensabile allargare ulteriormente i propri orizzonti proprio alla realtà americana. Lì, con l’inaugurazione delle politiche del New Deal, venivano concesse tante deroghe alle collusioni tra imprese, finchè fu istituita una vera e propria agenzia, the National Industrial Recovery (NIRA), per favorire la collaborazione tra organismi privati e pubblici. Su questi temi era diretta l’attenzione di Vito.

Un ulteriore campo di indagine attrasse l’attenzione di Vito nel periodo londinese, perché era consonante alle problematiche dibattute in Italia sul rapporto tra scienza e filosofia. Il contatto con Lionel Robbins lo riportò al tema dei fondamenti metodologici della scienza economica. L’accusa che a Robbins e ai pensatori economici più accreditati veniva mossa era quella di identificare la scientificità dell’economia con la neutralità nei confronti dei giudizi di valore. In realtà le posizioni degli economisti ortodossi erano molto meno rigide di quanto la storiografia ha fino a qualche anno fa riportato, o perlomeno negli anni le posizioni furono espresse con maggior chiarezza e quindi argomentate più approfonditamente di quanto nel suo primo saggio Robbins avesse fatto.

La posizione di Vito prevedeva la non indifferenza degli economisti nei confronti della realtà. Se si voleva dedurre dagli schemi teorici strumenti utili per raggiungere fini di politica economica, strumentali all’elevamento della persona, non si poteva non tener conto in sede teorica delle trasformazioni dei modi di vita e culturali, delle società che sono formate di idee e di azioni di persone portatrici di valori e di imprese concrete. Questo lo portò a considerare positivamente il lavoro interdisciplinare e anche a tenersi a stretto contatto con l’elaborazione filosofica dei filosofi personalisti, in particolare con il personalismo comunitario di Emmanuel Mounier[53].

Così con queste profonde impressioni nella mente, il 26 gennaio 1933 Vito salpò da Genova sulla nave Conte di Savoia[54], una delle due maggiori navi di linea italiane, e sbarca a New York il 2 febbraio[55]. Il viaggio, infatti, con il Conte di Savoia durava solamente 6-7 giorni.

Dalla fine della prima WW era stato percepito chiaramente in Europa il predominio finanziario degli Stati Uniti, superiori a chiunque per i modelli di produzione e di consumo, tanto da prendere corpo il tema dell’americanismo, stile di vita, organizzazione delle politiche industriali e delle relazioni sindacali, nuovo tipo di statualità che minacciava l’identità europea in nome del formarsi della cosiddetta società di massa. Se ne discute da parte della sinistra rivoluzionaria e riformista, e degli ambienti cattolici conservatori[56]. Fu anche questo mito ad alimentare i flussi migratori verso il nordamerica.

Cosa significasse per un italiano salpare per gli Stati Uniti lo sappiamo bene: tantissimi in cerca di lavoro, qualsiasi lavoro, avevano viaggiato oltreoceano dalla seconda metà del XIX secolo, attratti dal sogno di fiumi di latte e miele, anche negli anni in cui la crisi svelava le contraddizioni del capitalismo[57]. L’ America, sulla spinta del crescente flusso migratorio, “engaged in a debate about who could become an American”; in that sense, immigration control coincided with the plan of reforms of the Progressive era, and “Ellis Island was the place where the United States worked out its extraordinary national debate over immigration for more than three decades”[58].

A tutti gli immigrati italiani destinati ad entrare nell’esercito dei lavoratori in condizioni di vita non certo agiate, oppure ad ingrossare le fila dei disoccupati, dalla fine degli anni Venti si affiancò una porzione esigua di refugee scholars a cui toccò la miglior sorte di venire assistiti dall’Emergency Committee in Aid of Displaced Foreign Scholar .

Vito was really un privilegiato: ospite nelle migliori università del mondo in anni in cui molti vivevano il deterioramento della loro posizione, forme dei shock culturale e pochi godevano degli effetti benefici della loro nuova residenza.

Il “mito” letterario degli Stati Uniti iniziò in Italia più tardi, nel novembre 1930 con il saggio di Pavese su Sinclair Lewis, e venne alimentato dalle edizioni dei migliori romanzi stranieri da parte di Bompiani, di Frassinelli, di Einaudi, e di Mondadori. Si stampava in un clima politico di avversione verso la letteratura straniera, e di esaltazione dell’ideale fascista che era iniziato già dal 1924 con la stretta sul versante giornalistico e culminato nel 1931 con l’obbligo ai professori universitari di giurare fedeltà al regime[59]. Anche i periodici letterari fin dal 1928 contribuirono alla “infatuazione” per gli autori americani e anche coloro, i letterati meno giovani, che mettevano in guardia contro il “mito” in realtà pubblicizzarono l’esistenza di tanta letteratura sia classica sia di livello commerciale[60]. Dell’America lasciava senza fiato l’ampiezza dello spazio e la ridotta profondità del tempo, la difficoltà stessa di raccontarla.

L’ambiente scientifico newyorkese attrasse sicuramente Vito, perchè la scienza economica veniva considerata il campo di studi che elabora strumenti applicabili, scienza da cui far derivare regole di politica economica: risponde al rifiuto del dottrinarismo e all’assunzione di responsabilità  di fronte  al profilo economico, sociologico, giuridico, e istituzionale dei fenomeni contemporanei di cui la scienza fa fatica a dare conto. Qui Vito sperimentò direttamente quello che aveva echeggiato a Napoli negli anni del dibattito sul pragmatismo. E se l’Università Cattolica voleva essere il centro di formazione di una nuova classe dirigente, allora questo aspetto della cultura americana non poteva non costituire di per sé una attrattiva. I problemi qui non sono posti in termini di “categorie” ma in termini di esistente che è percepito attraverso l’esperienza e che diventa concetto attraverso l’esperienza.

Vito trovò sicuramente, magari attraverso il corso in “American Civilization”, tenuto da Louis Hacker, una possibile risposta agli interrogativi che si agitavano in Italia nella filosofia, ai quesiti sulla dicotomia tra pensiero teoretico e agire; il dilemma che Gentile risolveva teorizzando il “pensiero” come “atto puro”, trovava in Vito una soluzione nella “realistic philosophy”.

Sbarcò a Napoli e salì “a Milano in tutta fretta”. La sua mente dovette essere piena di ripensamenti importanti su quello che aveva visto, letto e sentito in America in quegli anni particolarmente interessanti, letti con gli occhi di un economista. Era capitato in America in anni oltremodo fertili per il pensiero e la politica economica.

Al suo ritorno a Milano gli venne affidato un corso di Istituzioni di economia politica per l’anno accademico 1934-1935[61].

Nel frattempo, sempre più ansioso di tornare all’estero,  Vito applicò per un ulteriore finanziamento che nel maggio 1936 Rockefeller Foundation decise di accordargli. Prima di partire, avendo nel frattempo vinto la Fullprofessorship, tenne la prolusione all’inizio dell’anno accademico, riprendendo temi a lui molto cari:

Quando io penso a tutto il bene che dalla scienza economica può venire alla umanità sofferente nell’indigenza e anelante ad una più alta giustizia sociale, io ringrazio Iddio di avermi fatto diventare economista[62]

Egli è pronto per mettere a frutto in Cattolica ciò che sotto ogni profilo dell’attività accademica ha appreso. Molto ha imparato perché ha studiato, e perché ha seguito seminari e frequentato istituti in cui gruppi di economisti lavoravano attorno ad uno stesso progetto o ad aspetti diversi di una stessa linea di ricerca. Proprio nel 1938 usciva per l’editore della Cattolica, Vita e Pensiero, il volume collettaneo  Mercato imperfetto ed economia corporativa, che si apriva con un saggio di Vito sulla concorrenza imperfetta e il monopolio collettivo in cui  Vito concludeva il proprio percorso inziiato nel 1930 su questi temi:

nella realtà economica monopoli e concorrenza non sono assoluti né antitetici e che la vita economica non è stata regolata dall’uno o dall’altro principio esclusivamente, ma da combinazioni di entrambi[63]

Dal suo ritorno con la piena assunzione della posizione di Professore Ordinario insegnò i corsi fondamentali di Economia e di Politica economica in Cattolica; dal 1940 impartì anche i corsi di Economia generale e di Economia politica e industriale presso il regio Politecnico di Milano fino al March 18th, 1968: l’ultima sua lezione riguardò “la combinazione dei fattori produttivi”[64].

Aveva via via portato con sé libri e collezioni straniere nella biblioteca della Cattolica, il cui patrimonio relativamente alle scienze sociali negli anni Trenta-Sessanta è particolarmente ricco; portò  la sensibilità verso una idea di economia come scienza sociale e umana. L’effettività della sua preparazione alla professione risulta dagli esiti che scaturirono dal suo lungo e vario percorso formativo.

Molti economisti aveva conosciuto e frequentato durante i suoi soggiorni di studio all’estero e con molti  italiani si era collegato: continuò a coltivare questi legami come testimoniano le lezioni che tenne in molte università europee (Parigi, Strasburgo, Nancy, Grenoble, München, Münster, Friburgo, Geneve, leuven, Santander) e in Quebec e a Chicago. Ottenne negli anni 1949-1950 un nuovo grant  da RF; riguardo a questo lungo soggiorno americano è conservata una fitta corrispondenza tra Vito, Joe H. Willits, e Norman S. Buchanan, rispettivamente Director and Associate Director for the Social Sciences, corredata di un dettagliato resoconto delle attività svolte[65]. Questi suoi legami internazionali furono indubbiamente vantaggiosi anche per i suoi allievi che egli indirizzò, tutti, appena laureati, perché si specializzassero secondo i loro specifici campi.

Se gli anni di guerra misero tra parentesi la possibilità di realizzare progetti, si formarono però in Cattolica in quegli anni le risorse per l’apertura di nuovi fronti: in Cattolica fu membro del Comitato permanente dell’Istituto Toniolo; dal 1943 al 1945 fu prorettore; rettore dal 1959 al 1965, impegnato direttamente per la fondazione della facoltà di Medicina a Roma; direttore dell’Istituto di Scienze Economiche; dal 1945 direttore della Rivista Internazionale di Scienze Sociali,  direttore della collana Problemi economici d’oggi; dal 1963 direttore di Studi di Sociologia.

Ricoprì la carica di presidente dell’Associazione italiana di Scienze Politiche, di consigliere della Società degli Economisti nel primo triennio dalla sua fondazione (1951-54); fu presidente del Comitato della Scienze Sociali della Commissione italiana dell’Unesco e della Federazione internazionale delle Università Cattoliche.

Fu membro di tante associazioni internazionali, tra cui l’International Association of University Professors di London, di cui fu anche presidente; dell’Union international d’etudes sociales di Malines, dell’ Association Internationale des Université, fu consigliere dal 1952 al 1967 e vicepresidente dal 1958 al 1964 dell’International Political Science Association. Fu membro dell’ Accademia nazionale dei Lincei, dell’Istituto Lombardo di Scienze e lettere, dell’Accademia pugliese delle Scienze e dell’Accademia Mediterranea, organizzando in questi ambiti convegni nazionali e internazionali, e curando pubblicazioni scientifiche.

In ambito ecclesiale fu vicepresidente del Comitato permanente delle Settimane Sociali dei cattolici d’Italia; fu l’unico laico consultore della Pontificia Commissione dei Seminari e delle Università degli Studi per la preparazione del Concilio Ecumenico Vaticano II e tra gli uditores laici del Concilio stesso; fu membro della Commissione Pontificia per lo studio dei problemi della popolazione, della famiglia e della natalità e, per soli tre giorni, della Consulta dei laici per lo Stato della Città del Vaticano.

Fu tra i primi componenti del CNEL[66] in rappresentanza del Comitato del Credito e del Risparmio, presidente del Comitato scientifico del Comitato nazionale della produttività presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri; fu insignito della medaglia d’oro dei Benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte.

Dal 1953 fu Consigliere del Credito Italiano, dall’anno successivo Vicepresidente (sotto la presidenza di Alfredo Pizzini) e ne divenne presidente il 14 giugno 1966.

Questi diversi aspetti dell’attività di Francesco Vito si presentano come un ‘impasto’ di impegno professionale, ecclesiale e sociale che sono inseparabili nella sua biografia. Ognuno di essi merita una ricerca propria, consente di ipotizzare le principali linee di lettura della biografia nel trentennio successivo, dentro e fuori l’accademia. Quello che aveva sperimentato nel vero senso del termine, viaggiando e fermandosi in università, imprese e istituzioni, era che procedere nella conoscenza era aprirsi alle novità, farne tesoro, divulgarle, diffonderle nella società in cui si era chiamati ad operare.

[1] D. Parisi e C. Rotondi, a cura di, Francesco Vito: attualità di un economista politico, V&P, Milano 2003, pp. 229-252). Ai primi saggi scritti dagli allievi di Francesco Vito, raccolti in questo volume si rimanda per ogni indicazione sulla biografia e il pensiero di Vito.

2 Nato a Pignataro Maggiore, in provincia di Caserta, il 21 ottobre 1902, dal padre Federico e dalla madre Rosina de Vita gli vengono imposti i nomi Francesco Maria Gerardo (Archivio storico UCSC, Fondo Carte Personali Francesco Vito, cart. 1, fasc. 5).

3 il documento di Diploma riporta i voti delle singole discipline: Lettere italiane nove e nove, Lettere latine nove e nove, Lettere greche otto e nove, Storia e Geografia storica otto, Filosofia otto, Matematica nove, Fisica e Chimica nove, Storia naturale nove, Educazione fisica nove (Archivio storico UCSC, ibidem).

4 La stessa provincia di Caserta fu inglobata nel 1926 in quella di Napoli.

5 Questo avvenne anche per effetto della “sacrosanta” prudenza della gestione da parte di Nicola Miraglia del principale istituto bancario del Sud, il Banco di Napoli (N. De Nanni, Sulla storia dell’industria in Campania nel Novecento, in A. Croce, F. Tessitore, D. Conte, Napoli e la Campania nel Novecento. Diario di un secolo, vol. III, Edizioni del Millennio, Napoli 2002, pp. 45-61). Sulla presenza di imprese estere ma sulla non proiezione internazionale delle imprese campane, vedi: P. Stampacchia, Le relazioni internazionali dell’industria campana nel XX secolo, in A. Croce et al., cit., pp.543-549.

[6] F. Balletta, L’artigiano in Campania nel ventesimo secolo, in A. Croce et al., cit. (la citazione è da p. 66).

[7] Id., p.70.

[8] M. Torrini, Introduzione alla sezione Scienza, in A. Croce at al., cit., pp. 605-617; la citazione è da p.611.

[9] Id., p. 613.

[10] In questo modo, lo Stato, concepito come una “astrazione giuridica” e un “organismo antropomorfico”, era “appiattito” di fatto sullo Stato amministrativo (L. Ferrajoli, Scienze giuridiche, in C. Stajano, a cura di, La cultura italiana del Novecento, Editori Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 559-597).

[11] Il certificato (ASUC, ibidem, box. 1, folder 6) riporta l’elenco degli esami sostenuti con i relativi voti.

[12] Vedi Archivio storico UCSC, ibidem, cart. 1, fasc. 6. Il certificato di laurea in “Scienze politiche e sociali”, conservato a AUC, Fondo Vito, fasc. 1, cart. 6, riporta il voto di laurea (110/110) e gli “esami speciali” sostenuti: Storia economica, Storia delle dottrine economiche, Economia politica, Diritto internazionale, Diritto e politica coloniale, Contabilità di Stato, Legislazione sociale, Sociologia.

 

[13] F. Ferrarotti, Scienze sociali e politiche, in C. Stajano, cit., pp. 599-651 (la citazione è a p. 638)

[14] Archivio storico UCSC, ibidem, cart. 1, fasc. 6.

[15] M. Bocci, Agostino Gemelli Rettore Francescano. Chiesa, regime, democrazia, Morcelliana, p. 334, nota 22.

[16] Alle contese per le cattedre napoletane è dedicato l’intero capitolo 16 di: I. Magnani, Dibattito tra economisti italiani di fine ottocento, F. Angeli, Milano 2003. Augusto Graziani vince quella di Economia nell’ottobre 1898; Francesco Saverio Nitti quella di Scienze delle Finanze all’inizio del 1899.

[17] I Principi di Scienza delle finanze di Francesco Nitti è pubblicato a Napoli, nella collana “Manuali Pierro di Scienze giuridiche e sociali” (editore Luigi Pierro) in diverse edizioni, tra il 1903 e il 1936. L’edizione utilizzata da Vito deve essere stata la “quinta rifatta” del 1922.

[18] G. Cantillo, La cultura filosofica a Napoli, in “Rivista di Filosofia”, n.3, dicembre 2000, pp. 455-504; Id., in  P. Rossi e C.A. Viano. Le città filosofiche. Per una geografia della cultura filosofica italiana del Novecento. Il Mulino, Bo, 2004, pp. 335-383.

[19] Come Croce stesso testimonia nella commemorazione del 1946, di cui in Cantillo, cit., p. 461.

[20] Cantillo, Id., p. 462.

[21] Ibid., p. 461.

[22] A. Aliotta, Il mio sperimentalismo, in M.F. Sciacca, Dall’attualismo allo spiritualismo critico (1931-1938), Marzorati, Milano 1961, pp. 19-40 (la citazione è da p.30)

[23] M.F. Sciacca, cit., pp. 170 ss.

[24] Si pensi ad esempio alla storia del pragmatismo italiano, secondo cui, fatta eccezione di tutte le differenze tra i numerosi filoni, il significato di una dottrina è quello degli effetti che derivano dalla sua applicazione, e al ruolo giocato da Vailati (L. Bruni, 1997, Il dialogo con Vailati e la nascita della teoria dell’azione di Pareto, “Il pensiero economico italiano”, 1, pp.57).

[25] R. Maiocchi, Fisica e filosofia nella cultura italiana dei primi decenni del Novecento, in “Giornale critico della filosofia italiana”, 1993, pp. 217-219.

[26] F. Duchini, Dal primo dopoguerra all’interruzione degli anni trenta, in Le settimane sociali nell’esperienza della Chiesa italiana (1945-1970), Atti del 60° corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattolica (Pisa, 9-14 novembre 1990), Vita e Pensiero, Milano, 1990, pp. 49-87.

[27] S.Zoppi, Movimento cattolico e questione meridionale, in “Dizionario storico del movimento cattolico – Aggiornamento 1980-1995, Marietti, Genova 1997, pp. 70-81.

[28] D. Duchini, cit., p.66. Negli anni immediatamente successivi si assistette ad una svolta nell’indirizzo degli organizzatori dell’iniziativa, una svolta indicativa della difficoltà di posizionarsi con decisione nei confronti del fascismo: il ripiegamento verso tematiche “meno sociali e più tranquille” fa privilegiare la pista della maturazione delle coscienze individuali. I temi affrontati , tra il 1926 e il 1934, riguardarono la famiglia, l’educazione, l’unità religiosa, l’opera di Pio XI, la carità e la moralità professionale. La XIX Settimana del 1935 fu rinviata e poi sospesa. L’equilibrio tra consenso e dissenso non si rende più praticabile, soprattutto attorno al tema deciso per quella settimana mai svoltasi: La moralità del lavoro nello spirito del Quadragesimo Anno.

[29] Dirigente del movimento internazionale antimassonico.

[30] Una lettera di Del Prete a Gemelli (AUC, cart. 24, fasc. 1, sottofasc. 199) testimonia questo affidamento. La ricostruzione di questa corrispondenza è in G. Palmesano, Mons. Pietro Del Prete, De Frede, Napoli, 1986 (capitolo settimo). Pietro del Prete (1868-1957), nipote di un arciprete di Pignataro, ordinato sacerdote nel 1891, docente di lettere nel seminario di Calvi e Teano, poi rettore del seminario di Alife; tra l’altro, dopo la prima guerra mondiale fu tra i fondatori a Pignataro della Banca Popolare, la quale fu soppressa dal fascismo; divenne vescovo di Troia e Foggia. Fece ritorno a Pignataro dopo la seconda guerra mondiale.

[31] G. Palmesano, cit., 1986; P.L. Porta, La cultura Economica, in G. Rumi, V. Vercelloni, A. Cova, (a cura di), Milano durante il fascismo 1922-1945, CARIPLO, Milano 1994, pp. 429-446.

[32] Del Prete partecipò alle attività dell’ Opera dei Congressi e al Congresso Cattolico Italiano per gli Studi Sociali (Padova, agosto 1896), dopo il 1904 all’Unione Popolare; fu socio di molte associazioni e istituzioni, tra le quali l’Accademia nazionale di scienze, arti e industrie di Firenze.

[33] La citazione è da G. Palmesano, cit., p. 47.

[34] S. Zaninelli, Una “scienza del lavoro”: il Laboratorio di psicotecnica dell’Università Cattolica negli anni Trenta, in G. Rumi, V. Vercelloni, A. Cova, cit., 1994, pp.413-428; M. Bocci, 2008, Per la “trasformazione del nostro paese”. L’Università Cattolica negli anni della formazione di Fanfani, in “Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico”, 3, pp. 259-286.

[35] Un panorama complessivo su questo tema è quello che si è tracciato in German Economic Literature as a Source for Analyzing Capitalism. The Views of Economists at the Catholic University ok Milan, in the First Decades of che 20th Century, in V. Gioia and H. D. Kurz, Science, Institutions and Economic Development. The Contribution of German Economists and the reception in Italy (1860-1930), Giuffrè, Milano, 2000, pp.249-268.

[36] F. Duchini, Angelo Mauri, studioso di dottrine economiche, in Angelo Mauri. Contributi per una biografia, Vita e Pensiero, Milano, 1988, pp. 151-168.

[37] De Simone è il primo italiano a recarsi negli Stati Uniti per perfezionarsi in economia con un finanziamento di Rockefeller Foundation.

[38] Nei primi anni di perfezionamento del proprio protetto, Del Prete mantenne i contatti con Gemelli, il quale si esprimeva sul giovane collaboratore dell’Istituto di scienze economiche in termini decisamente positivi, iniziando, perfino, a nutrire speranze sul suo avvenire accademico: “speriamo che [egli] possa farsi onore nel campo degli studi, a onore e gloria di Dio”, scrive a Del Prete nel gennaio del 1929 (G. Palmesano, cit., p. 54).

[39] G. Pavanelli e P.L. Porta, La formazione intellettuale e scientifica di un economista critico. Conversazione autobiografica con Giovanni Demaria, in “Il pensiero economico italiano”, III, 1995, 1.

[40] M. Bocci, Gemelli, una sfida culturale, in C. Mozzarelli, a cura di, Identità cristiana e cattolicesimo, Carocci, 2003, pp. 407-480.

[41] Come si desume dagli scritti di A. Gemelli, 1930-1931, analizzati da Bocci, 2003, cit.

[42] A. Ferrari, La civiltà industriale. Colpa e redenzione. Aspetti della cultura sociale in età degasperiana, Morcelliana, Brescia, 1984, pp. 37-39.

[43] ASUC, Fondo Mauri, cartella III, fascicolo 22.

[44] ASUC, 1.2-1.7.

[45] Lettera: Goepel (DAAD- Fondazione Alexander von Humboldt) to Vito, Berlin August 1st, 1934 (Alexander von Humboldt-Foundation, Paper files)

[46] ASUC, 1.2/1.7. I certificati che comprovano la frequenza ai corsi a Monaco, a Berlino e succesivamente a New York e Chicago, sono archiviati nel Fondo Carte Personali Francesco Vito, box 1, folder 7.

[47] L’analisi più precisa di questa fase della biografia scientifica è svolta in G. Gualerni, 1988, Mercati imperfetti. Il contributo di Francesco Vito al dibattito degli anni Trenta, Vita e Pensiero, Milano.

[48] La bibliografia completa di Vito è in Appendice in: Parisi and Rotondi, cit.

[49] Archivio Storico UCSC, ibidem, cart. 1, fasc. 5 e fasc. 6 (Relazione della Commissione giudicatrice per l’abilitazione alla libera docenza in economia politica, 21 dicembre 1932, pubblicata l’8 giugno 1933). La Commissione era composta da Graziani, Jannaccone, Masci.

[50] July 14th, 1932 (ASUC, Fondo Carte Personali Francesco Vito, box 1, folder 7)

[51] Lord Beveridge, 1960,  The London School of Economics and its problems 1919-1937,  Allen & Unwin, Leicester UK. “This book is a sequel to another book written by Janet Beveridge, my wife, that is being published at nearly the same time. Janet’s book is called An Epic of Clare Market and tells the story of the birth of the London School of Economics and Poltical Science in 1895 and its development to 1919” (p. 7) “I have covered this period already in an early book of autobiographical character called Power and Influence” (p. 8).

[52] La lettera, datata “Londra 8 luglio 1932, 15 Torrington Square” è conservata nell’Archivio Famiglia Mazzei (Fonterutoli in Chianti).

[53] D. Parisi, in Economics and Religion

[54] Il transatlantico Conte di Savoia era stato salpato il 30 novembre 1932 per il  viaggio inaugurale per New York ed era una delle preferite dalla clientela internazionale, soprattutto per il suo servizio alberghiero e perché non rollava, grazie all’impianto di girostabilizzatori.. Restò in servizio sulla rotta atlantica fino al 1943: l’11 settembre, mentre era in disarmo a Venezia, fu bombardata per errore dai tedeschi.

[55] Come comunica in una lettera a Jacopo Mazzei il 14 gennaio 1933.

[56] F. Romero, Americanizzazione e modernizzazione nell’Europa postbellica, “Passato e Presente”, n. 23, n.s., maggio-agosto 1990, pp.21-33; L. Paggi, Americanismo: usi e abusi di un concetto, Id., pp. 33-40.

[57] A. Cattaneo, 2007, Chi stramalediva gli inglesi. La diffusione della letteratura inglese e americana in Italia tra le due guerre, V&P, Milano, p.39-53.

[58] V.J. Cannato, 2009, American Passage. The History of Ellis Island, HarperCollins, New York (quotations from p. 12 and p. 15). Si pensi che dal 1925  the Italian quota went from 40.000 a year to 3.845 (p. 341).Si calcola che tra il 1876 e il 1976 26 milioni di Italiani lasciarono l’Italia; di questi 6 milioni andarono negli USA; oltre la metà di questo flusso si concentrò nel periodo 1876-1914. Tra il 1901 e il 1910 arrivarono negli USA 2.045.877 italiani; tra il 1911 e il 1920 1.109.524. Gli italinai si stanziarono soprattutto  nelle città del Mid Atlantic e degli stati del New England (S. Luconi and M. Pretelli, 2008, L’immigrazione negli Stati Uniti, Il Mulino, Bologna, pp. 86-99).

[59] Nella corrispondenza tra i funzionari di RF apprendiamo che a Geneva nel 1931 l’italiano Rota-Sperti stava finendo il proprio periodo di f’ship presso l’ILO and “like De Simone, is unwilling to return to his own country… he is tempted to return to the States, expecially in view of the fact that one of the Columbia professors, with whom he has remained in correspondence, assures him that he can get him placed. There is also a change that he will go to South America” (John Van  Sickle to Edmund E. Day, November 30, 1931: RAC, 751 Italy, 1.1. Projects, box 8, folder 91-95)

[60] D. Fernandez,  1969, Il mito dell’America negli intellettuali italiani dal 1930 al 1950, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma.

[61] ASUC, ibidem, box 1, folder 5. Affiancò anche il preside di facoltà Marcello Boldrini nella direzione della Rivista Internazionale di Scienze Sociali che dal 1927 diventò il periodico di scienze economiche della Cattolica. Sulla rivista vengono pubblicati articoli non solo di Vito sul pensiero economico americano. See: H. Guitton, Io significato dell’opera di Veblen e Hobson, in “RISS”, V, fasc 4, pp. 491-505.

[62] F.Vito, 1936,  Economia ed Etica. Prolusione, “RISS”, May, 7, pp. 254-271. The same topics are developed in: 1937, Morale et economie, “Revue d’Economie politique”, 1, pp. 43-49; and in: 1938, L’oggetto della scienza economica, “Giornale degli economisti e rivista di statistica”, vol. 78, 2, pp. 89-103.

[63] Vito, 1938a; 1938b; 1939a; 1939b.

[64] ASUC, Fondo Carte Personali Francesco Vito, box 1, folder 7.

[65] RAC, RG 1.1, Series 751S, box 8, folder 91

 

[66] ASUC, lettera 4 gennaio 1958.

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