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PIGNATARO MAGGIORE – Pascarella: “Io, cronista, minacciato dal boss”, un eroe dimenticato e senza scorta

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PIGNATARO MAGGIORE –  Durò due minuti e 29 secondi quella telefonata. Dall’altro capo del telefono, siamo nel novembre 1998, c’erano Antonio Iovine e Michele Zagaria, i potenti boss dei Casalesi, infastiditi dagli articoli di un giovane cronista del Corriere di Caserta, Carlo Pascarella, convinto che dopo l’arresto del boss dei boss della camorra, Francesco Schiavone detto Sandokan, fra Iovine e Zagaria si fosse aperta la guerra per la successione. I due boss non potevano permettere che Pascarella continuasse a diffondere quei sospetti, e così gli telefonarono per dirgli che non era un giornalista serio, che scriveva solo cretinate e che, però, non avevano intenzione di minacciarlo. Molti misero in dubbio l’autenticità di quella chiamata, insinuarono che non fossero davvero loro. Invidia per un giornalista «politicamente» fuori dal coro? Iovine e Zagaria, dopo un processo iniziato con clamoroso ritardo, furono persino assolti per quelle minacce. Eppure, ora si sa, era tutto vero. A confermarlo, dopo il suo pentimento, è stato nei giorni scorsi lo stesso Iovine, che ha confessato ai magistrati che stanno raccogliendo le sue rivelazioni, di aver fatto quella telefonata perché ciò che scriveva Pascarella era vero.

Pascarella, ha avuto la sua rivincita?

«Per anni ho evitato di parlare di questa vicenda, non volevo farmi pubblicità. Ma ora non voglio sottrarmi. Mi sento sereno perché è emersa la verità. Quella telefonata, trasmessa a Porta a Porta, ad Anno zero, a Blu notte, divenne un cult su come i casalesi minacciano i giornalisti. Eppure molti ne misero in dubbio l’autenticità. Mi dava molto fastidio che pensassero fosse una sciocchezza. Ebbene sì, mi sono preso una grandissima soddisfazione. Anche se in realtà io non ho mai scritto che dopo l’arresto di Sandokan, fra Zagaria e Iovine si era aperta una guerra, ma solo che era nato un antagonismo per la successione al trono».

La telefonata risale al 1998. Il processo a Iovine e Zagaria cominciò nel 2012.

«È così, ben 14 anni dopo e solo dopo che la telefonata divenne di dominio pubblico. Io venni ascoltato come parte lesa dopo quasi tre lustri. Eppure la denuncia la feci subito. I funzionari della Mobile mi dissero che avevano ascoltato tutto in diretta. Forse il telefono da cui partì la chiamata era sotto controllo. Per molti anni polizia e carabinieri hanno vigilato notte e giorno sotto casa mia. Non li ringrazierò mai abbastanza per questo».

Com’è possibile che si siano dovuti attendere 14 anni per processare Iovine e Zagaria per quella telefonata?

«Guardi, io non voglio polemizzare coi magistrati, ma che questo ritardo sia una cosa anomala lo posso dire? Posso avere il sospetto che quel processo si è celebrato solo perché la tv ha fatto sentire la telefonata e quindi solo perché chi doveva celebrarlo si è sentito in qualche modo “costretto”»?

Ancora più assurdo è che entrambi i boss vennero assolti.

«Eppure è così. Iovine perché c’erano dubbi sul fatto che quella fosse la sua voce; Zagaria se la cavò perché le sue parole non furono ritenute delle minacce, ma sostanzialmente delle “rettifiche”. Se lei ascolta la telefonata, loro dicono che non vogliono minacciarmi. Ma se un criminale latitante della camorra telefona a un giovane cronista, cos’è? Nemmeno un tentativo di fare pressioni?»

Ha parlato di “vigilanza”, ma non di scorta.

«Beh, quella forse l’avrei avuta solo se fossi stato vicino a qualche partito che è meno distante dai magistrati».

Che intende dire?

«Io non ho solo ricevuto la telefonata di Zagaria e Iovine, ma un altro clan ha fatto saltare in aria il negozio di mia sorella. Nonostante ciò, mai nessuna scorta».

E nonostante ciò lei è ancora qui che conduce le sue battaglie.

«In quei mesi molti quotidiani mi definirono l’“incubo mediatico dei casalesi”, ma io non sono un eroe. Ho fatto il mio dovere di cronista per 20 anni e lo faccio ancora. Non sono come altri colleghi che hanno sfruttato la battaglia anticamorra per diventare parlamentari. Colleghi vicini a un certo schieramento politico, che hanno cavalcato l’onda di minacce molto inferiori alle mie. È legittimo, per carità, ma io non sono fatto così, e penso di avere più dignità, anche se lo faccio per pochi soldi».

Giornalisti anticamorra di seria A e di serie B?

«Pare di sì, e la spiegazione più logica è una sola. Io sono un cronista vicino al centrodestra, anche se non ho mai militato in un partito. Non facevo parte di quel determinato schieramento politico. Vede, non solo non ho sfruttato l’occasione dell’eco che quelle minacce ebbero, ma nessuno mai mi offrì nemmeno la possibilità di farlo. Mai nessuno, ad esempio, mi ha chiesto di scrivere un libro, mai nessuno mi ha proposta una candidatura».

Perché non è mai andato via?

«Perché credo davvero in quello che faccio. Ci metto il cuore. Ho una figlia di nove anni e voglio un futuro diverso per lei. Non ho mai pensato di mollare. Dopo il Corriere di Caserta ho lavorato in altri quotidiani della provincia, e ora, con altri colleghi, ho messo su Caserta In, un quotidiano che è una scommessa. Ma vuole sapere una curiosità?»

Me la dica

«Io faccio musica, e anni fa ho messo su un gruppo che si chiama Punta Raisi, in onore di Falcone e Borsellino. Nel 1999 scrissi una canzone che s’intitolava “Tu, Sodoma e Gomorra”. Proprio così, Gomorra. Fui il primo a accostare il termine Gomorra alla camorra. Ben sette anni prima di Saviano».

(Luca Rocca – Il Tempo)

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