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TEVEROLA – Estorsione con metodo mafioso, Biffa ottiene i domiciliari

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TEVEROLA – Estorsione con metodo mafioso, Roberto Biffa, ottiene il beneficio degli arresti domiciliari. Lo ha stabilito, poche ore fa, il Gip al termine dell’interrogatorio di garanzia. E’ stata accolta, quindi, la richiesta del difensore dell’indagato – l’avvocato Leopoldo Zanni – che aveva proposto un alleggerimento della misura cautelare.  Biffa è stato coinvolto, lo scorso 29 aprile,  in un’indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli sfociata questa mattina nell’arresto di sei persone per estorsione e trasferimento fittizio di denaro.  L’indagine riguarda fatti che si sono svolti tra il 2011 al 2013, nei quali risultano coinvolti due imprenditori, uno del frusinate, l’altro residente nell’Aretino ma originario di Villa Literno, ora in carcere. Un aspetto riguarda l’immissione sul territorio nazionale di un ingente numero di banconote false statunitensi, circa 5mila dollari, spacciate attraverso la mediazione di una banca di Caserta, estranea ai fatti. Secondo quanto emerso finora dalle indagini l’imprenditore del frusinate, Bruno Fratarcangeli, 55 anni, avvalendosi della forza intimidatrice di alcuni affiliati al clan fazione Bidognetti, Massimiliano Di Fusco, 47 anni, Giuseppe Ventre, 56 anni, e Biffa Roberto, 39 anni, avrebbe estorto denaro ad alcune ditte. Queste ultime, che avevano subappaltato molti lavori edili, erano originarie dell’agro aversano ma avevano realizzato opere nel frusinate e accumulato ingenti debiti.  L’imprenditore, dunque, si sarebbe rivolto ad affiliati dei Casalesi per recuperare crediti. E sarà un parente di uno dei suoi debitori a dare a Fratarcangeli i soldi falsi. A quel punto l’imprenditore avrebbe chiesto l’aiuto di Ventre e Francesco Felaco, 40 anni, per farli guadagnare dalla spendita di banconote false. L’altro imprenditore residente nell’Aretino, ma originario di Villa Literno e ritenuto legato al clan Tavoletta, Giovanni Potenza, 62 anni, per evitare un sequestro del suo patrimonio utilizzava alcuni operai della sua ditta come prestanome per le sue attività. Nell’ordinanza il gip non ha ritenuto di dover contestare a nessuno dei 6 indagati l’aggravante dell’articolo 7, come chiesto dai pm.

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