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Sant’Angelo d’Alife come Sarno: l’alluvione del 1857 fece 29 vittime. Ecco tutti i nomi. Ora il Forum Giovani propone di dedicare la giornata del 13 settembre ai caduti

di Francesco Mantovani

SANT’ANGELO D’ALIFE. Il Forum Giovani di Sant’Angelo d’Alife, guidato dal neo-presidente Carmine Bucci , propone di dedicare la giornata del 13 settembre ai caduti dell’alluvione del 1857. Quel lontanissimo giorno (circa quattro anni prima dell’Unità d’Italia), ben ventinove cittadini persero la vita tragicamente. Di quel giorno triste esiste soltanto una testimonianza scritta: la narrazione ad opera del Prof. Avv. Domenico Viti. I giovani del Forum hanno pensato bene di riportare alla memoria e all’attenzione di tutti quella testimonianza così autentica per rendere il doveroso omaggio a tutti quei concittadini dei quali fino a pochi giorni fa in pochi ricordavano. E il sodalizio santangiolese lo ha fatto mediante le modalità più efficaci. Sfruttando la spaventosa potenza della comunicazione, hanno pubblicato sul sito del Forum il documento integrale in cui viene rievocata la tragedia che colpì la comunità. Con l’auspicio che quel 13 settembre venga ricordato per sempre. Nel pieno rispetto dei ventinove santangiolesi che persero la vita.

Questa la narrazione del Prof. Avv. Domenico Viti.  (fonte M. Mancini tratto da www.isanniti.org/celestino, testo a cura di E. De Cesare)

L’anno 1857 fu sommamente ubertoso per le abbondanti raccolte di tutte le
derrate. L’estate piovosissima e perciò più abbondanti le raccolte del granone
e fagioli. Fin dal principio di quell’anno una voce vaga era in giro presso
tutti i contadini, cioè che nel giorno 13 giugno di quell’anno per effetto di
un cataclisma doveva perire tutto il mondo. «Ut universa quae in terra sunt,
consumetur».
Venne il 13 giugno, ognuno aveva l’animo preoccupato, ma la giornata passò
senza incidenti. Invece i tristi presagi in parte erano riserbati al 13
settembre.
In detta giornata cadeva la festa dell’Immacolata Concezione che per antica
consuetudine si celebrava ogni seconda domenica di Settembre. Il sabato 12
vigilia della festa, cominciò il concorso dei forestieri, e verso la sera il
forte soffiare dei venti australi, una pesantezza nelle membra, un caldo
atmosferico soffocante, densi nuvoloni accavallati sulle montagne, l’aria
gravida di elettricità, faceva da tutti presagire l’avvenimento di
straordinario nembo.
Tutta la notte del sabato fu un lampeggiare continuato ed i frequenti
acquazzoni tenevano desti gli abitanti delle contrade Valle Martellata e
Corvini perché quei valloni due o tre volte ingrossarono.
Sul far del giorno il cielo era diventato tranquillo e prometteva bel tempo
onde che altri forestieri intervennero e tutti accorrevano per solennizzare la
festa, ed il luogo della raccolta era dalla Chiesa fino alla casa di Raffale
Andreotti che fiancheggiava il vallone.
La via S. Maria era già gremita di popolo e di ogni specie di rivenditori. La
Chiesa piena zeppa di gente, dove doveva fare il panegirico un valente oratore.
Le funzioni erano appena incominciate che dal cielo, dapprima tranquillo,
fattosi orribilmente fosco, si rovesciò una fitta pioggia che andava sempre
aumentando.
Michelangelo e Pasquale Conte, economi della festa, volevano ad ogni costo
che si fosse fatta la processione per ottenere abbondanti offerte e da
forsennati percorrevano su e già la via Sata Maria, incoraggiando la gente che
cercava qualsiasi riparo. Essi dicevano: “Non temete, coraggio, la pioggia è
bell’e finita, al di là del fiume splende il sole, la processione si farà”.
Infatti dai paesi al di là del Volturno, dove in quella giornata non piovve
si osservava che dalle montagne di Raviscanina, fino a quelle di Piedimonte,
Gioia e Faicchio erano addensati orrendi nuvoloni, lampi continui, come se vi
fosse caduto sopra un bolide incendiato.
Ho detto che la pioggia andava sempre crescendo ma verso mezzogiorno crebbe
in tal misura che i tetti non erano più riparatori delle case, quindi, acqua
dappertutto.
Io ero in casa con le mie zie che accudivano alle faccende di cucina e nella
cucina eravi pure il sacerdote Alfonso Ferrazzani il quale, dolcemente
ragionando con le dette mie zie, si trangugiava un canestro di fichi troiani.
Erano pure nella limitrofa stanza Eraclio Rotondo, scarpellino di
Pietravairano, Marianna Centofanti, Giustina Lisi, Giuseppe Lorino e Gloria
Vitto di Roccavecchia, amici di mio zio Antonio. Gloria Vitto, gioconda e
leggiadra fanciulla di anni venti, era prossima a sposare, ma gli allori delle
sue nozze si mutarono in cipressi perché fu trasportata dalle acque fin presso
le rive del Volturno.
Durante quella pioggia torrenziale ogni animo faceva cattivi presentimenti ed
era in preda alla disperazione. Io trasportato da forza irresistibile di tanto
in tanto lasciavo i miei ospiti ed andavo sulla loggia coperta a guardare il
vallone il quale benché gonfio non ispirava serii timori. L’ultima volta che mi
recai sulla loggia, restai sorpreso nel sentire dalla parte settentrionale un
cupo fragore, man mano un sibilo così forte da rompere i timpani e dar l’
emicrania, indi, dalla parte dell’orto di Perna vidi schizzare con la celerità
dell’elettrico, turbinando lungo il letto del vallone una quantità di sassi,
seguiva questo turbinio una montagna nera alta circa cento palmi che dalla
collina dell’orto di Perna precipitavasi sulla Valle Martellata.
Allora il vallone S. Bartolomeo, arrivato nelle vicinanze dell’orto di Perna,
trovava di fronte una collina e doveva fare due risvolte, ma quella lava
impetuosa divise in due parti la collina e da quell’altezza formava un
rettilineo dalle falde della Sassara al trappeto di Ferrazzani.
A tal vista i capelli in capo mi si rizzarono e gettando un grido di
disperazione, corsi nella cucina invitando le zie e gli ospiti a salire sui
tetti; Marianna Centofanti che saliva appresso alle zie fu trattenuta dal prete
Don Alfonso Ferrazzani che volle salir prima, si annegò salvandosi costui.
Si cominciò a vagare di tetto in tetto ed io ebbi una ondata di acqua che mi
portò via un tacco della scarpa. Dal vico Morgantiello ci porsero delle scale e
così scendemmo nel vico ricoverandoci nella casa dell’Arciprete Ferrazzani.
Tutto ciò succedeva in pochi minuti. Noi vagavamo a guisa di gatti sui tetti
allorché l’intera mia casa e le altre convicine erano scomparse.
Le mie zie, il prete Ferrazzani ed io, scampammo miracolosamente, le altre
persone che erano in mia casa perirono tutte.
Nella casa Ferrazzani trovammo nuovi tormenti e nuovi tormentati, dovemmo
assistere a scene strazianti: il primo piano inondato di acqua fangosa che
veniva dalla loggia invasa dal vallone. L’androne del gran portone d’ingresso
zeppo di forestieri e venditori, e l’acqua per circa mezzo palmo lo aveva
invaso. Nell’ultimo piano distinti signori in preda alla disperazione e fra
costoro il Panegirista che era impazzito addirittura ed il maestro di musica,
D. Giuseppe Peci che giustamente presagiva la distruzione della sua casa con la
intera famiglia. L’Arciprete Ferrazzani, in cotta e stola, dalla finestra
prospiciente alla Valle Martellata, dava l’assoluzione in articulo mortis agli
annegati, era insomma l’orrore in tutta la sua maestà che la potenza dell’uomo
non sa e non può descrivere.
Andrei troppo per le lunghe se volessi descrivere tutti i particolari di
quell’orrenda giornata, mi limiterò alle cose più essenziali.
Distrutta la Valle Martellata, le acque del torrente andavano ad infrangersi
sul fabbricato che conteneva il trappeto con il suo quarto superiore, la loggia
ed i vani bassi dell’Arciprete Ferrazzani e come una molla che scatti si
divideva in due correnti, una, la maggiore che portò via per metà la casa di
Raffaele Andreotti con tutto il vino e gli apparecchi di cantina, essendo egli
un rivenditore.
L’altra corrente per l’arco del vico Morgantiello, e, questa porzione
allagava la via S. Maria fino ai primi gradini della Chiesa minacciando di
rovinare tutto il casamento di Don Marco e Don Rodolfo Peci e la parte
superiore dei Corvini. Molti annegati per questa corrente furono trasportati
per la via Corvini che immetteva nel torrente di Santa Maria.
La casa di Don Marco Peci era in serio pericolo, dal lato di occidente era
battuta dalla corrente principale la quale, avendo un letto piuttosto largo,
lesionò appena le mura che confinavano col vallone. L’altra corrente che
impetuosa usciva dall’arco Morgatiello, senza posa flagellava tutto il muro
dalla parte superiore. Per fortuna il portone era aperto e che le porte di
tutti i bassi della casa istessa si sfondarono e così l’acqua dissipandosi in
tante direzioni, scemava di forza e la rimanente riversavasi nel sopportico
della casa di Don Rodolfo Peci ed altra lungo la strada dei Corvini.
La casa del Sig. Peci fu di ricovero a più di cento persone e fra queste
molti galantuomini e signore che erano usciti dalla Chiesa. Tutti asserivano
che quella casa correva un pericolo grande e reale perché investita da tutti i
lati ed i suoi bassi erano tanti emissari.
Tutto il casamento tremava siffattamente da sembrare un pesante carrozzone
tirato a stento su di una strada di fresco imbrecciata.
Le sparpagliate acque del vallone San Bartolomeo in tutta la lungrezza della
canapina di D. Giuseppe Peci si congiungevano a quelle del vallone Santa Maria,
come il Ticino col Po presso Pavia, al Ponte San Vincenzo alla Macchia. Quando
quel ponte fu costruito, non si pensava che poteva succedere simile disastro,
quindi non era bastante a dare sfogo a quell’immenso volume d’acqua cosicché il
dippiù da sopra il ponte si riversò sul sottoposto fondo dei Preti ed in men
che nol dico, il caseggiato col trappeto con tutti i suoi utensili fu raso al
suolo, una porzione di acqua cominciò a scendere alla Cupa. La Chiesa dell’
Annunziata, investita con impeto, era al momento per essere trasportata via
insieme alla parte piana della Cupa. Tre macigni di orrenda mole fermati
accosto le pareti della Chiesa sono testimoni eloquenti di quanto asserisco.
Ma l’Angelo di Dio gridò: « Non plus ultra ». Era per verificarsi ciò che
prevedeva D. Giuseppe Peci dalla casa Ferrazzani.
Le acque dei due valloni si spandevano dai Corvini alla Piazza per tutta la
Canapina di D. Giuseppe Peci formando un mare o lago in tempesta, ed il ponte
di San Vincenzo, investito da orrendi macigni che trasportavano i due Valloni
che in quel sito affociavano le loro masse, precipitò aprendosi un abisso e le
acque dissipandosi in esso, la Chiesa e la Cupa furono salve.
Non si rinvennero neppure le vestigia del profondissimo Pozzo che era sulla
sinistra del ponte, tanto utile al nostro paese. Scomparve anche la nicchia in
fabbrica dove era la effigie di San Vincenzo che dava il suo nome a quel sito.
Il teatro dell’orrore era la via S. Maria. Nella loggia dell’Arciprete
Ferrazzani dai furibondi cavalloni furono sbalzati vari annegati che si
salvarono, e fra costoro Michele Maiello insieme ad un pargoletto suo figlio.
Angela Manera, moglie del Maiello, si salvò parimente e così pure Pacifico
Geremia. Il trappeto Ferrazzani con due bassi attigui era zeppo di gente, e
perché queste case furono inondate erano tutti sommersi fino alla gola e
gracidavano come rane in quell’onda fangosa. Allorché cessò il temporale,
quella gente inzaccherata di melma fu sdraiata lungo la strada Santa Maria per
farla riavere dall’assiderazione.
I] giardino di D. Marco Peci e tutto quello spazio che dai Corvini si estende
alla Piazza e che forma la Canapina di Don Giuseppe Peci non era più
riconoscìbile, la superficie era perfettamente cambiata, era un ammasso di
ciottoli e macigni. Le olive tutte decorticate ed in ogni pianta si formava un
deposito di oggetti che l’acqua trasportava: lenzuola, coverte, mensali e
biancheria di ogni specie ridotte in cenci, tronchi di alberi, panche, tavoli e
travi, e diversi cadaveri disseminati per quel sito.
Nel vico sottoposto alle case di D. Marco e D. Rodolfo Peci e propriamente
accosto l’abitazione di Antonietta la Correra, fu rinvenuto il primo cadavere,
l’unico che l’acqua abbia rispettato perché non era denudato come tutti gli
altri e distinguevasi benissimo anche il suo gilet rosso che indossava nei dì
festivi. Costui era Giosuè Stagno figlio di Giuseppe.
Nello spazio davanti la porta della Chiesa furono depositati dieci cadaveri
che avevano raccolto nelle vicinanze, nessuno riconoscibile, tutti denudati con
l’epa gonfia e pieni di contusioni, dissero taluni che riconobbero il cadavere
della celebre meretrice Rosina Norato.
La casa del  Serviente Comunale  Domenico  Sansone,  alias   «Tribuzio»,
situata alla destra del Vallone era rimasta priva di uscita perché l’acqua
aveva portato via la lunga gradinata d’ingresso, sprofondando le fondamenta, e
quella numerosa famiglia vedevasi ivi accovacciata, tutti allibiti, taciturni e
con gli occhi stralunati.
Mio zio Antonio ed altri notabili del paese, sul far della sera vollero
condurmi nel sito dove la mattina esisteva la nostra abitazione e, ma quale fu
la nostra sorpresa nel non ravvisare nemmeno il suo posto, non più si scorgeva
la primiera topografia, la superficie di quella contrada era totalmente
cambiata, non vedevi altro che smisurati sassi accavallati l’uno sull’altro. A
tale considerazione rimanemmo affranti e, sdraiati… su di un macigno piangemmo
amaramente sulle ruine di Gerusalemme.La  sera  non   si   conosceva il
numero  dei  morti,  ma  prevedevamo che fossero stati a centinaia perché il
luogo principale dell’inondazione era gremito da circa un migliaio di gente,
invece il numero dei morti, non  già  degli  annegati,  furono  29  e  sono:
1.Marianna  Centofanti  fu Bernardo  di  Roccavecchia;
2.Giuseppe  Larino  idem;
3.Giustina  Lisi idem;
4.Gloria Vitto di Costantino idem;
5.Eraclio Rotondo di Pietravairano;
6.Fra Giuseppe d’Agostino monaco dell’Ospizio di  S. Antonio;
7.Giovanni d’Agostino fratello del primo;
8.Sisto Mastrangelo di Piedimonte;
9.Vincenzo   De  Risi   fu   Pietro   di   S.  Angelo;
10.Maria   Rosa Martino   di   Francesco,   idem;
11.Angelo   Gilardi   di   Colantonio   idem;
12.Antonia Sacchetti di Michele idem;
13.Maria Grazia Terrazzani di Filippo idem;
14.Maria Conca di Giovanni idem;
15.Giosué Stagno di Giuseppe idem;
16.Maria Giuseppa Pocino di Michele idem;
17.Cecilia Lanzone  di Domenico  idem;
18.Antonio Angelillo  idem;
19.Domenico Zazzarino   idem;
20.Nicola  Gillardi  fu  Angelo  idem;
21.Maria  Rosa d’Agostino di Donato idem;
22.Margherita lacovone di Raffaele idem;
23.Michele  Pocino   di   Antonio   idem;
24.Antonio   Pocino   di   Michele idem;
25.Caterina De Risi fu Francesco idem;
26.Serafina Iannaccone idem;
27.Rosina  Norato  idem;
28.Maria  Palma  Pisaturo  di  Michele idem;
29.Nunzio Frasso fu Gabriele idem.

Di questi 29 dieci soltanto furono raccolti nelle vicinanze del paese e furono
sepolti in Chiesa; 19 furono raccolti nella pianura e furono sepolti in una
profonda fossa escavata ad hoc accosto la Cappella di Santa Maria del Campo.
Se l’abitato fu così mai ridotto, le campagne non soffrirono meno. Il
Torrente portò nella pianura immensa ghiaia e sotto la taverna più di cento
tomoli di terreno erano ingombri di sassi.
Il volgo profano che mira le cose sempre con le lenti d’ingrandimento non
supponendo nemmeno per pensiero che l’acqua a misura della pendenza e del
volume così si accresce la sua forza, all’aspetto degli spaventevoli macigni
trasportati dall’acqua, immaginarono un effetto di forza maggiore, una cosa
soprannaturale, e così spacciarono che mentre imperversava il temporale, dei
diavoli a forma di tori con le loro corna spingevano quei grandiosi sassi e la
loro immaginazione fu tradotta in via di fatto. Salvatore d’Agosta, detto
volgarmente Ciccone, che abitava in un tugurio nella valle di Cicchillo pochi
metri distante dal vallone, a chiunque lo visitava asseriva di aver veduto coi
propri occhi spaventevoli tori che con le corna lanciavano in aria come
pagliuche grossi macigni.La stessa cosa asseriva Michele Sbaraglia che si trovò
nel suo fondo detto pastinello alla contrada « Tre faggi », vicinissima al
torrente Valle Martellata. Costui diceva di aver veduto una mandria di quei
tori che non solo sbalzavano sassi ma con le corna percuotendo le rupi,
scuotevano anche le montagne. Altri asserivano che tale cataclisma avvenne per
talune famose « pernottazioni » fatte quel dì in diversi punti delle montagne
con molto intervento di famosi maghi. Il volgo per « pernottazione » non
intende mica passare la notte in un luogo diverso dal solito, ma la nefanda
opera dei magoni con lo intervento dei spiriti infernali.
Così per esempio, vedendo quel sasso d’immensa mole rimasto nella risvolta
del colle spezzato nell’orto di Perna, dicevano i contadini che tutta l’acqua
del mondo non avrebbe potuto trasportarlo, ma erano state le corna dei diavoli
sotto l’apparenza dei tori che lo avevano urtato, anzi ravvisavano in esso i
segni delle cornate. Così pure altri macigni rimasti dove era il vicolo Valle
Martellata ed anche i sassi fermatisi sull’estremità del muro della Chiesa dell’
Anmmziata, dalla parte occidentale, anzi i contadini più sofisti osservavano
che lo sforzo dei diavoli era quello di abbattere la Chiesa, avevano con le
corna lanciato contro di essa quei macigni che solo a toccarla dovevano
mandarla in frantumi, ma che le loro forze non prevalsero essendovi a custode l’
Angelo di Dio.
Per altro essendo un avvenimento non mai succeduto a memoria d’uomo, i
ragionamenti che si facevano in proposito erano tutti sofistici, anche qualche
scienziato che avrebbe potuto per così dire spiegare le vere cause del
cataclisma, della possanza dell’acqua con una determinata pendenza, anche
costoro hanno sofisticato a meraviglia.
In quella calamitosa giornata molti si distinsero per carità e per
filantropia. Vincenzo De Risi che era riuscito a salvarsi si annegò mentre
accingevasi per salvare altri annegati. Fra Giuseppe d’Agostino avvisato in
tempo a fuggire, non volle dicendo che S. Antonio ci avrebbe pensato e così
perì miseramente insieme al fratello Giovanni che era venuto da lontano paese
per passare la festa in compagnia del frate. Cecilia Sansone avendo imprestata
una buggetta ad un torronaro, al sopraggiungere dell’inondazione il torronaro
scappò via lasciando in preda delle acque il suo negozio, ma la Sansone si
lanciò nella acqua sperando di salvare la buffetta, e così fu trasportata nella
pianura divenendo cadavere irriconoscibile. Pacifica Geremia fu miracolosamente
salvata lanciandole una fune.Danni immensi ebbe a deplorare D. Marco Peci e fra
gli altri la perdita totale dell’olio e dei cereali.
Ma chi più si distinse in quell’orrenda catastrofe e che merita ed è degno di
universali encomi e di sensi di sentita riconoscenza fu il nostro solerte ed
amorosissimo Arciprete D. Vincenzo Ferrazzani, il quale dapprima confortò gli
annegati moribondi con l’assoluzione in extretnis, poi mise la sua vasta
abitazione a discrezione di tutti coloro che rimasero privi di tetto, ed a
tutti apprestò soccorsi a larga mano. Tradirei la verità se non facessi di ciò
menzione additando ai posteri la sua carità cristiana, la nobiltà del suo
procedere ed i generosi suoi sentimenti.

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