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DRAGONI – Don Carlo Pascarella aiutava i deboli, per l’invasore piemontese era un prete sovversivo: fucilato. Quello che i libri di storia non dicono

briganti

DRAGONI (di Giuseppe Castrillo) –   La figura dell’Arci-prete, nato a Dragoni, alla fine del Settecento, costituisce “il punto più alto ed evidente del sentimento di opposizione” della comunità del circondario al regime borbonico, diventa con il “suo ardore innovatore e democratico” un precursore dello spirito del Risorgimento.  Non è facile addentrarsi nelle pieghe della microstoria, venire a capo dei nodi della quotidianità dei piccoli borghi che, da secoli, pulsano di vita propria, mentre sembra che la loro esistenza trascorra senza lasciare traccia o sia incapace di iniziative autonome, percossa appena dal movimento imposto dai grandi avvenimenti. Quando, poi, qualcuno rompe il cono d’ombra e fa parlare le carte, disturbandole nel loro sonno polveroso, ecco che anche i borghi mostrano i segni di una partecipazione alle trasformazioni delle cose.

Tra i cercatori di storia e di documenti, non cercatori di professione, ma non per questo meno esperti o attenti, Simeone Veccia ha espresso il fascinoso mondo del suo paese natio, Baia e Latina, vi ha lavorato e vi sta lavorando da qualche decennio, con l’intelligenza dello storico acuto e la passione indelebile dei compulsatori di documenti che parlano. Nel giro di alcuni anni ha prodotto tre lavori di registro diverso, ma accomunati da un respiro conoscitivo intenso e da una dovizia di materiali documentari notevoli e di prima mano: Frammenti della nostra storia, stampato nell’agosto del 2002, La Chiesa di S. Sebastiano e le “Grandi Opere Pubbliche” di fine Ottocento, uscito nel settembre del 2003, ed infine l’articolo Don Carlo Pascarella e i “Moti napoletani” del 1848, pubblicato nell’ “Annuario” 2003 dell’Associazione Storica del Medio Volturno.

Il filo conduttore dei tre scritti si dipana nello scenario di Baia e Latina attraverso un settantennio di storia, che prepara l’Unità d’Italia e la consolida.Vengono fuori dalla ricerca di Simeone Veccia uomini e cose, interessi e bisogni dei ceti sociali, soprattutto di quelli più deprivati. Lo storico, senza mai uscire fuor di quota, sa essere anche ritrattista, sa campire sullo sfondo affetti e situazioni, condizioni umane e tormenti esistenziali. Si chiude così una pagina che ricostruisce Baia e Latina sul finire del 1860:

“Nella maggior parte di quelle case, in pochi metri quadrati, coabitavano con la famiglia l’asina, il maiale e poche galline, unico capitale da custodire e sorvegliare gelosamente. Misere condizioni di un’esistenza degradante che appaiono ancor più drammatiche se confrontate con la vita agiata dei benestanti, con le loro cantine, i granai, le credenze e l’elegante calesse parcheggiato nell’androne del palazzo”.  Così vengono messe a fuoco la complessità della questione contadina meridionale e un contrasto di colore sociale che si risolverà nei bagliori della “violenza brigantesca”. Il piccolo paese che si adagia sul Volturno diverrà, infatti, proprio in quel torno d’anni in cui la Destra Storica celebra i suoi fasti, un teatro, e non di second’ordine, della guerra dei briganti. Peraltro su questa crux della storia dell’intero Matese, Veccia ha in serbo una ricostruzione assolutamente veridica, cui non mancheranno le tinte fosche del noir, del rapimento Fiocca, progettista di un non mai realizzato ponte sul Volturno in tenimento di Baia e Latina, e dell’eccidio del sindaco Scotti con l’intera sua famiglia. Una vicenda che costituisce uno degli affairs più torbidi della storia post-unitaria .

Lo storico non ci fa vedere solo come vivevano i suoi concittadini del tardo Ottocento, ci racconta anche le lotte e l’impegno civile di un’intera collettività per bonificare il paese, costruire arterie, edificare l’asilo e le scuole, il palazzo comunale: opere colossali realizzate con prestito pubblico, ottenuto anche grazie a forme di autotassazione.  Nel lungo saggio La Chiesa di S. Sebastiano e le “Grandi Opere Pubbliche” compare una completa appendice che riporta documenti autografi delle delibere che provvidero al nuovo assetto del paese, cui si accompagna un corredo fotografico che rende giustizia alla bellezza del borgo antico di Baia.

Se in questo volumetto ferve l’operosità e l’intelligenza della ricostruzione, nell’articolo dedicato a Don Carlo Pascarella viene lanciato uno sguardo su vicende che non furono esclusivamente locali, e la storia del paese si implica nella storia politica del Regno delle Due Sicilie.  La figura dell’Arciprete, nato a Dragoni, alla fine del Settecento, costituisce “il punto più alto ed evidente del sentimento di opposizione” della comunità del circondario al regime borbonico, diventa con il “suo ardore innovatore e democratico” un precursore dello spirito del Risorgimento.

Veccia ricollega   ordinatamente i fatti che ebbero per protagonista Don Carlo che scelse di essere agitatore politico, nel territorio di Sessa, affinché fosse restituita dignità e forza alla Costituzione che Ferdinando II aveva concesso nel 1848, e che aveva, poi, stravolto nella sua essenza. L’uomo non viene affatto mitizzato, non è oggetto di un’esaltazione gratuita anche se l’articolo ha un esordio dal ritmo vibrante tanto da sembrare un vero e proprio incipit, o una specie di cippo marmoreo su cui è incisa l’iscrizione di un’alta biografia intellettuale e morale. Don Carlo, arciprete a Baia e Latina, basta da solo a dare senso e tono al Risorgimento nelle nostre zone. Il suo fu un impegno politico, come scopertamente lascia intendere Simeone Veccia, forte di ideali nuovi e condivisi, finalizzati ad “aiutare i poveri e i bisognosi”, tesi a “toccare e contrastare privilegi consolidati “, sostenuti dall’ “affermazione del diritto ad un’esistenza libera e partecipata”.

Dall’analisi e dallo studio delle carte processuali non possono emergere dubbi sul ruolo politico di Don Pascarella nella cospirazione antiborbonica del ’48 napoletano, partecipazione che fruttò al sacerdote di Dragoni una condanna a diciannove anni di carcere, scontata per nove anni. Ma Veccia non fa emergere solo l’agitatore politico, lo pone all’interno di una cultura   del Meridione d’Italia che aveva espresso, sul fronte laico, uomini come Luigi La Vista, Carlo Poerio, Francesco De Sanctis. Don Pascarella proveniva da un’altra formazione: era prete a tutto tondo, ma non per questo non avvertiva il ritardo storico di un Regno in cui spesso l’inefficienza generava l’ingiustizia.

Il prete di paese leggeva Giuseppe Giusti e Niccolò Tommaseo, era in corrispondenza epistolare col Gioberti e con Papa Pio IX. Letture e rapporti dal taglio moderato, senz’altro, ma portatori di quello spirito unitario e risorgimentale che fecondava il mondo cattolico più aperto.  D’altra parte non furono i libri e le lettere trovate in un fienile che determinarono la condanna di Don Carlo: documenti, come riporta Veccia dall’istruttoria del Giudice del Mandamento di Pietramelara , di “indubbia rilevanza ai fini dell’ordinaria attività politica” che “non menava(no) (direttamente) a prigionia, ma sibbene (alla sola pena) della ammenda”.

L’articolo dell’Annuario colma una lacuna: non c’erano riguardo a questa zona, finora, notizie rilevanti dell’attività di sacerdoti favorevoli ad una svolta democratica nella vita politica e amministrativa dello stato. Veccia integra con una pagina di storia locale un disegno ampio e composito della storia nazionale, che va dall’attività libertaria di un Antonio Jerocades al sacrificio di Don Tazzoli, e ricompone con un’altra delle sue tessere un pezzo di un mosaico ricco ma non ancora del tutto riportato alla luce.

Il profilo del prete e dell’uomo:

Don Pascarella fu quello che pagò il prezzo maggiore perché più elevato ed ambizioso era l’obiettivo da perseguire e, perciò, più rischioso il percorso da compiere: l’affermazione della libertà di pensiero, il rispetto della dignità dell’uomo, l’abbattimento di una “tirannia” consolidata sono conquiste che, come la storia insegna, costano care. Fu coinvolto nelle vicende politico-insurrezionali del “quarantotto” napoletano spinto dai sentimenti liberali che ne avevano segnato la vita, il pensiero e l’agire quotidiano; sentimenti che in paese tutti gli riconoscevano ed apprezzavano.  Diede corpo al suo inappagabile e innato desiderio di aiutare i poveri Ite ed i bisognosi, agendo come uomo dabbene, sempre rispettoso delle leggi, senza curarsi delle gravi conseguenze alle quali 1o esponevano le sue idee rivoluzionarie.

Le testimonianze di alcuni concittadini influenti:

Uomo dabbene, rispettoso delle leggi, sempre disposto ad aiutare poveri e bisognosi;

seppur di sentimenti liberali non ha mai rivolto ingiurie verso il Re ed il Governo;

predicò in Chiesa sulla Costituzione, spie gandone gli effetti positivi per la gente, ma senza ingiuriare il Re, anzi lodandolo per aver dato liberamente al popolo una “cosa buona”;

i suoi “sentimenti liberali” non gli impedirono, talvolta, di acclamare “Viva il Re, viva il Governo”;

leggeva spesso e tanto, tanti giornali, libri e fogli stampati, ma sempre rispettoso delle leggi e dell’Autorità regia.

 

La sentenza, già scritta, della gran corte criminale di Caserta

Il 21 Agosto 1851, dopo un lungo dibattimento, in chiusura de causa, la Corte

a) riconobbe don Carlo colpevole di discorso tenuto in luogo pubblico, provocando direttamente gli abitanti del Regno ad armarsi contro l’Autorità Reale, ad oggetto di distruggere, e cambiare il Governo;

b) pronunciò la seguente sentenza:

Condanna Don Carlo Pascarella alla pena di anni diciannove di ferri ed al pagamento delle spese di giudizio a favore della Reale Tesoreria liquidate in Ducati 74,71. Ordina che espiata la pena debba il Pascarella dare malleveria di Ducati cento e ben condursi per anni tre.

La prigionia e la morte

Don Carlo Pascarella fu rinchiuso nelle prigioni reali e vi rimase per circa diciannove anni. Le particolari condizioni in cui il prete fu costretto, la particolare durezza del carcere, la totale assenza di qualsiasi cura, le angherie subite durante la prigionia, condussero Don Carlo ad una veloce morte. Infatti fu liberato solo perchè ormai agonizzante. La sua morte seguì dopo pochi giorni dalla sua liberazione.

 

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2 commenti

  1. Già…bisogna riscrivere quel pezzo storia. “Durante il Regno delle Due Sicilie, si inaugurò una politica industriale, che, nonostante alcuni limiti, portò all’origine dei primi opifici moderni della penisola e apportò notevoli mutamenti nel tessuto sociale del Mezzogiorno, tanto che il numero degli occupati nell’industria nelle Due Sicilie era maggiore rispetto a quello delle altre aree del nascente Regno d’Italia. Parimenti, se dopo l’Unità, si formerà il “triangolo industriale” Milano-Torino-Genova, prima del 1861, le tre regioni italiane con la più alta percentuale di addetti occupati nel settore industriale erano Calabria, Campania e Sicilia”. Il nord, oltre a compiere stragi, genocidio, massacri, portò via oro (nel Banco delle due Sicilie, fu sottratta la faraonica somma di circa 4500 miliardi di euro d’oggi…), portò via le nostre fiorenti industrie, portò via tutto ciò che era il nostro progresso. E nonostante queste ruberie, massacri, ecc. dichiararono pubblicamente la loro volontà di sottomettere il Sud (Carlo Bombrini, senatore e Governatore della neonata Banca Nazionale del Regno d’Italia) con queste parole: “I Meridionali non devono intraprendere”! Cioè dovevamo essere una loro colonia, sottostare al loro essere. Basta fare una ricerca sul web per rendersi conto di come siamo stati trattati da quei macellai. C’hanno massacrato, derubato e sottomessi. E’ storia. Unirono quel disegno politico ad una strategia da rapina verso il Sud che diede ossigeno alle loro casse…vuote. Putroppo quel gap è rimasto, anche perchè ancora oggi, il NOrd continua, sotto certi aspetti, a depredare il Sud. Vedi i fondi FAS stanziati dall’Europa per le aree disagiate del sud, trasferiti poi al nord….!

  2. Vincenzo D'Agostino

    La storia viene sempre scritta dai vincitori, e ai vinti si applicano le frasi che lo storico romano Tito Livio attribuì a Brenno vincitore sui Romani “Vae Victi”, guai ai vinti. Il vincitore prende tutto. All’inizio di un conflitto la prima vittima è la verità, e alla fine dello stesso le bugie dei vincitori diventano storia e le bugie dei vinti, presunte o tali, vengono smascherate. Non sempre vince chi ha ragione, anzi spesso vince chi ha torto, ha ragione sempre e solo colui che vince, ecco perchè conta vincere, raggiungere lo scopo e non importa come e con quali mezzi perchè, come ebbe a sentenziare “l’odiato” Nicolò Machiavelli, “coloro che vincono in qualunque modo vincano mai nè riportano vergogna”. De facto costituisce, questa, una cruda, amara, scomoda verità, ma verità piaccia o non piaccia. Poi dopo decenni o secoli e persino millenni, si giunge a rispolverare i testi di storia e riabilitare gli sconfitti (non tutti, ovvio) grazie al paziente e diligente compito di storici accademici e non. Gli esempi a riguardo sono molteplici ma basta citarne uno solo, GIOVANNA D’ARCO la pulzella D’Orleans. Esempio di coraggio, altruismo, guida, spirito di abnegazione, virtù guerriere, valori spesso solo citati ma mai messi in pratica da quei maschietti che si “ritengono” uomini, la pulzella d’Orleans sconfitta, catturata e sottoposta alla peggiore delle morti, il rogo, verrà riabilitata, beatificata e santificata solo nel 1920 a distanza di 429 anni dalla sua morte. Che dire, meglio tardi che mai.
    dottor Vincenzo D’Agostino