Ultim'ora

CASERTA – RIFIUTI TOSSICI, COSI’ LA CAMORRA HA AVVELENATO IL NOSTRO FUTURO

 

CASERTA –   Questi lunghi 25 anni non sarebbero stati gli stessi senza la camorra e gli interessi diretti dei clan, a cominciare da quello dei Casalesi, nel business dei rifiuti. Senza il loro ruolo tutto ciò non sarebbe avvenuto, almeno nelle forme che oggi conosciamo. Sono loro i primi responsabili dell’ecocidio, che andavano fermati subito, per scongiurare quanto è realmente accaduto. Invece, si sono mossi indisturbati per troppo tempo. Sono ancora gli anni 80 quando la camorra comincia a mettere le mani sulla gestione dei rifiuti, prima quelli urbani del Centro-Nord Italia, come rivela il boss Nunzio Perrella ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, poi quelli speciali e pericolosi, la fetta più grossa della torta. I rifiuti speciali sono infatti la parte più consistente dei rifiuti prodotti ogni anno dall’Italia, circa l’80%, e anche quelli più costosi da smaltire, fino a 600 euro a tonnellate per i più pericolosi. Ecco l’affare.  Dalle dichiarazioni di Perrella nasce l’inchiesta denominata Adelphi, che comincia a definire i contorni di un fenomeno ancora del tutto sconosciuto: la Campania è stata scelta dalla camorra, insieme ai suoi sodali nel mondo della politica e dell’economia, come un unico e grande immondezzaio per gli scarti tossici dell’Italia produttiva e laboriosa. Non droga, cemento o appalti, nei loro piani c’è soprattutto la monnezza. Nelle sue dichiarazioni, Perrella sottolineò l’enorme interesse finanziario della criminalità organizzata per questo settore: sua l’ormai celebre frase, “a munnezza è oro”. E’ proprio l’operazione Adelphi a mettere in luce una delle più potenti holding criminale dedita sistematicamente allo smaltimento abusivo dei rifiuti. Scrivevano allora i magistrati impegnati nelle indagini (Aldo Policastro e Giuseppe Narducci): “Tale consorteria mafiosa si proponeva di acquisire, in modo diretto, la gestione ed il controllo totale di tutte le attività di raccolta, trasporto e smaltimento di ogni rifiuto prodotto da attività industriali o produttive, anche del genere tossico e nocivo, in zone diverse del territorio nazionale, ed in particolare la gestione in forma monopolistica delle discariche ubicate nel casertano e nel napoletano”. Gli inquirenti riuscirono a provare che in cambio di tangenti, e grazie al controllo sul territorio esercitato dai clan camorristi, questa “consorteria mafiosa”, come l’hanno definita i magistrati stessi, è riuscita a scaricare illegalmente in Campania, ed in particolare nella provincia di Napoli, rilevantissime quantità (nell’ordine di centinaia di migliaia di tonnellate) di rifiuti”. Sei imprenditori e un amministratore locale, l’ex assessore all’Ambiente della provincia di Napoli, vennero condannati dal Tribunale di Napoli per reati che vanno dall’abuso di ufficio alla corruzione, vennero assolti, invece, dal reato di associazione mafiosa. Purtroppo, all’epoca l’art. 260 non esisteva ancora, ma grazie a questa inchiesta, i protagonisti dei traffici illeciti in Campania avevano finalmente un volto. Lo stesso volto che comparirà in altre inchieste, come documenteranno alcuni dossier di Legambiente sulla Rifiuti Spa. Un caso clamoroso è quello dei rifiuti prodotti in provincia di Roma. Per merito dell’inchiesta condotta nel 1994 dall’allora procura presso la pretura di Roma (pm Giuseppe Cascini e Giuseppe De Falco) si scoprirà che questi rifiuti (decine e decine di migliaia di tonnellate), non più smaltibili nella discarica di Malagrotta, venivano intercettati dalla imprese campane e indirizzati verso la ragnatela di discariche private ancora attive. La micidiale macchina da guerra dell’ecomafia finirà, da allora, diverse volte nelle carte della Dda di Napoli o della procura di Santa Maria Capua Vetere, a cominciare da un’altra inchiesta che, al di là degli esiti giudiziari, con la tagliola della prescrizione intervenuta nel 2011, ha perlomeno quantificato le dimensioni della catastrofe: è l’operazione “Cassiopea” condotta da Donato Ceglie, allora magistrato alla procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, che quantificò in un milione di tonnellate il volume dei rifiuti gestiti illegalmente dagli indagati. Anche in questo caso si tratta di un’inchiesta avviata prima dell’entrata in vigore dell’art. 260, che ha segnato un punto di svolta. Le inchieste si sono moltiplicate in questi 12 anni di applicazione, insieme alle ordinanze di custodia cautelare: da “Ecoservice” a “ReMida”, da “Terra Mia” a “Marco Polo”, da “Madre terra”, “Carosello. Ultimo atto”, “Chernobyl”, “Dirty Pack”, “Nerone”, Ecoboss”, “Rompiballe”, “Carte False”, “Terra dei fuochi”; “Old Iron”, “Dred”, “Giudizio Finale”, “Nolo”, sono per citarne alcune.

E se i clan cominciano a fare lentamente i conti con la giustizia, il loro potere appare scalfito solo in parte. Ancora oggi, purtroppo, svolgono un ruolo determinante nel trasformare la monnezza, campana e non, nel loro personalissimo bottino, a scapito della stessa vita dei loro congiunti. Mai come in questo caso l’avidità, la sete di denaro, mostrano il loro volto peggiore, di pure cinismo. Sono loro il vero motore dei traffici illeciti, sono loro gli ideatori, sono loro gli esecutori, sono loro i primi a goderne.

Clan capaci di monopolizzare un intero settore imponendo le proprie direttive, cacciando fuori dal mercato ogni concorrenza. Monopolio che si è con il tempo perfezionato, grazie anche alla lenta metamorfosi dal classico “camorrista imprenditore” a ciò che uno dei magistrati che più di tutti li ha studiati, Maria Cristina Ribera (Dda di Napoli), non esita a definire “imprenditore camorrista”. Come ha fatto mettere a verbale in Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti nel 2011, “Mentre prima soggetti notoriamente conosciuti come camorristi avevano imprese che gestivano i rifiuti, ora alcuni imprenditori hanno un controllo quasi monopolistico di alcuni ambiti di questo settore, che però sono il braccio economico del clan”. È un cambiamento sostanziale che rende molto più invasiva e difficilmente contrastabile la presenza della criminalità organizzata nel settore delle impresa. L’imprenditore camorrista è infatti un imprenditore a tutti gli effetti: la sua azienda è iscritta al registro delle imprese, ha una partita iva, paga i contributi e gli stipendi ai suoi dipendenti, ha una contabilità apparentemente trasparente. Molto spesso, ha anche un’esperienza decennale nel settore, muovendosi pericolosamente tra lecito e illecito, e per questo senza alcun problema a ottenere il certificato antimafia. E anche quando nascono le società miste per la gestione dei rifiuti solidi urbani, quelle in cui i consorzi gestiti dagli enti pubblici si associano con le imprese private, i mafiosi, in particolare i Casalesi, decidono di entrare dalla porta principale. Le società miste diventano a partecipazione mafiosa.

Affari sporchi e traffici illeciti hanno raggiunto dimensioni tali da indurre l’ultima Commissione parlamentare d’inchiesta (XVI legislatura) sul ciclo dei rifiuti ad usare parole durissime nella sua relazione conclusiva sulla Campania, approvata lo scorso 5 febbraio, per quanto riguarda di nuovo la Terra dei fuochi: “Si tratta di danni incalcolabili, che graveranno sulle generazioni future. Il danno ambientale che si è consumato è destinato, purtroppo, a produrre i suoi effetti in forma amplificata e progressiva nei prossimi anni con un picco che si raggiungerà, secondo quanto riferito alla Commissione, fra una cinquantina d’anni. Questo dato può ritenersi la giusta e drammatica sintesi della situazione campana”. E fa ancora più male leggere, come ricorda il sostituto procuratore Alessandro Milita, impegnato nel processo relativo, tra l’altro, alla discarica Resit (su sui si tornerà più avanti), e al ruolo di uno dei protagonisti dei traffici di rifiuti, l’avvocato Cipriano Chianese, che già nel 1996, le indagini allora svolte dalla Criminalpol di Roma “riassunte con informativa del 12 dicembre 1996, prot. n. 2050/95/F/94/3/ crim.” avevano perfettamente delineato la “dinamica delinquenziale, realizzata in forma programmatica con l’interessato patrocinio dell’ente mafioso, quale copertura dell’attività e fonte di redditi ingenti”. Tutto molto prima delle dichiarazioni rese da numerosi collaboratori di giustizia ma con un limite, fino ad allora invalicabile: quello rappresentato dalla possibilità di contestare uno specifico delitto ambientale. “Soltanto l’assenza della esplicita normativa sanzionatoria, introdotta solo nel 2001, volta a penalizzare siffatte condotte (l’attività organizzata di traffico illecito di rifiuti, ndr), escludeva la possibilità di elevare una specifica imputazione ai correi”, sottolinea il pm Milita. Anni di ritardi gravissimi, visto che Legambiente aveva proposto da subito, già nel 1994, sanzioni più dure contro i trafficanti, che hanno avuto conseguenze negative soprattutto per quanto riguarda la contestazione di un altro delitto, collegato direttamente ai traffici illeciti di scorie, quello di disastro ambientale.

Non a caso, lo scorso anno la Dda di Napoli ha notificato in carcere una nuova ordinanza di custodia cautelare al boss dei Casalesi Francesco Bidognetti, Cicciotto ‘e mezzanotte, per disastro ambientale. È la prima volta che su un boss cade una tegola del genere. Gli cade dopo una lunga indagine condotta dalla Dia. Il motivo: con la sua attività svolta con la società “Ecologia 89” con il suo sistematico trasferimento dei rifiuti dal Nord Italia in Campania, soprattutto nella zona di Giugliano, in località Scafarea, avrebbe causato un disastro ambientale di immani proporzioni. L’area inquinata – gestita dalla Setri poi diventata Resit srl – si estende su quasi ventidue ettari. Il percolato che avrebbe attraversato il suolo ammonta a 58 mila tonnellate, i rifiuti smaltiti sono stati 807 mila tonnellate. Lo smaltimento ha provocato la fratturazione del tufo al di sotto degli invasi, unica barriera naturale tra gli invasi stessi e la falda acquifera. In breve, per l’Antimafia, un disastro permanente. È il risultato di un’inchiesta nata nel 2006 e che ha trovato un primo elemento fondante in una perizia depositata dai pm nel corso di un processo parallelo a carico di Cipriano Chianese. La perizia effettuata da esperti indica in maniera inequivocabile che “la falda acquifera di Napoli, grazie all’attività di smaltimento illegale a Giugliano, nella discarica della Resit in località Scafarea, 21.4 ettari infiltrati da 57.900 tonnellate di percolato derivanti da 806.590 tonnellate di rifiuti, è irrimediabilmente compromessa fino al 2080 con rischi per l’agricoltura e la salute umana”.

Ha usato recentemente toni duri anche la Direzione investigativa antimafia (Dia), che nella sua Relazione inviata alla Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo illegale dei rifiuti (XVI legislatura) – e riportata per intero nella Relazione finale sulla Campania – , giunge ad affermare che: “Le organizzazioni criminali, ed in particolare il cartello dei cd. casalesi, per oltre trenta anni hanno fatto del sistema rifiuti una delle principali fonti di arricchimento. La questione rifiuti, come evidenziato dalle relative indagini, ha messo in evidenza i rapporti patologici politico – criminali -imprenditoriali tra i vari capi clan delle famiglie casertane e gli imprenditori del settore rifiuti sia locali che transregionali, come dimostra il caso paradigmatico dell’interlocuzione contrattuale tra Gaetano Cerci (pregiudicato del clan Bidognetti) ed il noto Licio Gelli negli anni ’90, attraverso la cui relazione delinquenziale fu possibile, per alcuni anni, in modo sistematico, il trasferimento di sostanze altamente tossiche da altre regioni italiane a Caserta. Tutte le analisi di sistema effettuate negli ultimi anni fanno emergere, ancora una volta, il primato negativo della regione Campania sotto il profilo delle infrazioni ambientali accertate e delle conseguenti ormai strutturali patologizzazioni del territorio”.

Sullo stesso registro la Procura nazionale antimafia, che non manca occasione in ciascuna delle sue Relazioni annuali inviate al Parlamento e al Ministero dell’Interno di denunciare i clan campani nell’affare monnezza. Nell’ultima Relazione ha scritto: “La camorra non si è limitata a fare del traffico illecito di rifiuti un business, ha alterato e snaturato il ciclo dei rifiuti, trasformando il ciclo ordinario. Alla camorra è stato consentito di costruire un ciclo dei rifiuti a misura dei propri interessi e dei propri affari”. Sintesi perfetta, si potrebbe aggiungere.  (legambiente)

 

 

Guarda anche

Pignataro Maggiore / Eboli – Bimbo sbranato in giardino, i due Pitbull assassini arrivano a Pignataro

Pignataro Maggiore / Eboli – Si chiamava Francesco Pio il bambino di 13 mesi morto …

2 commenti

  1. Ho letto con interesse l’articolo.
    Il vero problema è che chi doveva intervenire già dal 1988 , non è intervenuto

    Perchè?

    Gaetano Manna

  2. ho letto l’articolo.uomini potenti guadagnano sui rifiuti . fanno scrivere e raccontare il contrario. nel ciclo dei rifiuti guadagnano i soliti noti ….. per adesso mi fermo paolo