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Caserta – L’identità dell’Alto Casertano nella sua essenza più profonda: la civiltà contadina

Caserta – Una chiave di lettura per comprendere la nostra terra è quella che passa attraverso l’indagine del suo sostrato più profondo, caratterizzante la sua essenza, la sua connotazione di civiltà: il mondo contadino.
Due nostri conterranei, Salvatore Mottola e Francesco Del Vecchio, hanno voluto indagare questo mondo, o meglio, riproporre questo mondo da cui provengono; mondo che permea le nostre tradizioni e le nostre abitudini ancora di oggi, anche se appare per certi aspetti ormai lontano. Hanno raccolto questo percorso storico e mentale in un libro, “La civiltà contadina nell’Alto Casertano – Tradizioni, abitudini, usanze e riti dei nostri nonni” (Spring Edizioni – Caserta 2022). Li abbiamo incontrati, per conoscere direttamente da loro che cosa li ha mossi, quale scopo hanno voluto raggiungere, che cosa ci hanno voluto trasmettere con questa loro iniziativa.

D. Che cosa vi ha spinti a scrivere questo libro?

R. Siamo, alla nostra età, tra gli ultimi testimoni di un passato che è stato la condizione di vita di tanti, della maggioranza della popolazione, una diffusa civiltà secolare – la civiltà contadina – che solo qualche decennio fa si è avviata verso il suo tramonto. Ci è sembrato doveroso, ma anche abbiamo sentito un forte bisogno di fissare su carta questo film che avevamo nella testa, le immagini, i luoghi, le vicende di vita.

D. Quindi avete deciso di scrivere e di affidare alla carta stampata questi vostri ricordi, esperienze, testimonianze.

R. Certo, ricordi, testimonianze di una civiltà contadina plurisecolare, arrivata pressoché tale fino a ieri. Focalizzata su un territorio un po’ marginale, povero, al confine tra regioni, non quindi il centro della civiltà agricola sviluppata, come poteva essere quello della Pianura Padana, di certi latifondi del Mezzogiorno o delle zone della Campania più prossime al Napoletano e al Salernitano. Forse per questo magari non molto scandagliate, ma non per questo meno meritevoli di approfondimento. Nel libro abbiamo voluto sottolineare le tante tipicità, originalità che connotavano la nostra terra – l’Alto Casertano – che, anche se facente parte della vasta provincia di Terra di Lavoro, che andava dal Napoletano fino al Molise e al Basso Lazio e che aveva dei tratti comuni di civiltà, di lingua, di tradizioni, pur tuttavia era caratterizzata da tante tipicità, particolarità. Il nostro territorio è uno di questi. È proprio questo che riteniamo sia tra i valori di questo libro.

D. Come è articolato questo vostro lavoro?

R. Esso si sviluppa in forma di racconto autobiografico, di ricordi in prima persona di un narratore, che può essere stato uno di noi due coautori o un testimone qualsiasi del nostro territorio. Questo racconto è il filo conduttore. Poi nel libro ci sono tanti quadri, digressioni, che trattano di racconti, di proverbi, di modi di dire, di ricette, ecc. Del libro si può dare una definizione di storia, di racconto in senso lato; si può fare del libro anche una lettura antropologica, o sociologica, o storica, specie per le testimonianze di guerra, parte integrante della nostra civiltà contadina nella prima parte del secolo scorso.

D. Trattando di civiltà contadina, anche l’uso della lingua ha nel libro un suo ruolo?

R. Certo, non è secondario l’uso del dialetto locale. Solo in tal modo si può rendere il genuino significato di termini ed espressioni. E poi il nostro dialetto locale ha una sua tipicità “altocasertana” che, anche se si inserisce nella famiglia dei dialetti napoletani, se ne differenzia – come in altre parti della Campania e del Mezzogiorno – per delle sue specificità, che sono poi il suo “valore”, rappresentativo dell’identità locale. Abbiamo riportato in dialetto locale diverse parti del libro, in particolare proverbi, i modi di dire, le ricette, traducendo in italiano le parti più incomprensibili per chi non è del luogo.

D. Ritenete che le 260 pagine del libro possano ad un certo punto annoiare il lettore?

R. Pensiamo di no. Riteniamo, al contrario, che la lettura sia interessante, ma anche divertente in alcuni capitoli, per es., in quello dei cunti, o in quello dei giochi dei bambini, dei mestieri e degli attrezzi scomparsi. Altri capitoli sono fonte di riflessione, anche perché sono testimonianze dirette, pulite, di chi ha vissuto la guerra e il periodo fascista. La guerra per fortuna noi non l’abbiamo vissuta. I nostri genitori e nonni invece sì. E ce l’hanno raccontata e ce la raccontavano spesso, sempre come se quei fatti, quegli eventi fossero appena accaduti. Dai loro racconti si capiva che la guerra orribilmente si inserisce, si cala nella vita sociale e produttiva, ne diventa parte integrante. Inevitabile poi non citare vicende ed aneddoti del periodo fascista, che per ben vent’anni accompagnò la vita dei nostri protagonisti. Sono anch’essi testimonianze di vita vissuta, certamente parziali, ma che – riportate testualmente così come udite dai racconti dei nostri testimoni – ci danno un’idea di come venne vissuto quel periodo della nostra storia. Da non trascurare infine le appendici; tra queste quella della storia del rinvenimento del c.d. “Mosaico dell’Epifania”, che è esposto al Museo archeologico di Teano. È un esemplare importante, di cui sicuramente non si trova traccia della storia del suo rinvenimento da nessuna parte. Siamo i primi a descriverla, essendone i diretti eredi di chi lo scoprì.

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