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Il ruolo della pandemia sulla crescita esponenziale del numero dei professionisti della programmazione

Le cifre rivelate dall’ultimo report di SlashData parlano chiaro: in sei mesi, da ottobre scorso a marzo di quest’anno il numero dei programmatori nel mondo è aumentato del 14% passando da 21.3 milioni a 24.3 milioni. Per comprendere ancora meglio cosa ci sia dietro questi numeri, basti pensare che nel 2017 gli esperti di codici a livello globale erano 15 milioni, di cui soli 11 potevano essere definiti “professionisti”. Una crescita davvero impressionante che conferma ancora di più quanto il mercato abbia bisogno di questa figura professionale. Per sapere come fare per diventare programmatore basta avviare delle semplici ricerche online, ma in linea di massima possiamo dire che, non occorrendo un titolo accademico, è sufficiente seguire uno dei tanti corsi di preparazione specifici presenti online per avere delle basi per poter ambire a un impiego in questo mondo. Il consiglio però è quello di optare per percorsi di livello come quello proposto da aulab con il suo Hackademy, una full immersion di 3 mesi che permette allo studente, attraverso lezioni teoriche e tantissime ore di pratica su progetti concreti, di entrare subito nel vivo della programmazione nell’ottica di un pronto inserimento lavorativo. E le percentuali di job placement dell’azienda italiani sono davvero promettenti.
E rimanendo in tema di lavoro, molto interessanti anche i dati relativi all’impatto del covid sulle abitudini lavorative di chi si occupa di tecnologia.

Settori che non conoscono crisi

La pandemia non ha fatto altro che accelerare i trend già in corso in relazione alle aree tecnologiche in espansione. Questo significa che l’e-commerce, il settore dell’automazione e delle comunicazioni sono comunque riusciti a registrare aumenti decisi nonostante la crisi. Sul settore del commercio online i dubbi erano pochi, visto che a causa del distanziamento sociale milioni di persone hanno preferito rivolgersi a canali telematici per effettuare i propri acquisti per evitare di correre rischi. Non è quindi un caso che gli investimenti per l’implementazione di questo tipo di servizi siano aumentati e andranno a crescere ulteriormente nei prossimi mesi, richiedendo forze lavorative sempre fresche per riuscire a soddisfare l’enorme richiesta.

La definitiva esplosione della smart working

Ma l’emergenza sanitaria ha impattato anche il mondo dello smart working a tutte la latitudini, aprendo spazi per la gestione del lavoro da casa che sino a un anno e mezzo fa parevano preclusi. Il 30% dei lavoratori è stato costretto a lavorare completamente da casa, con uno sforzo lavorativo e di adattamento non indifferente. Ma il dato più interessante riguarda quell’11% di lavoratori che avendo provato il telelavoro sperano di continuare a operare in questo regime anche in futuro. Dei segnali significativi che le aziende non potranno certo non considerare.
Difficile fare delle previsioni a medio termine, ma gli analisti concordano sul fatto che questa esperienza, seppur forzata, potrà avere degli effetti permanenti nella gestione della forza lavoro in remoto, con tutta una serie di implementazioni già in cantiere per il controllo della produttività dei dipendenti e il miglioramento delle condizioni generali di lavoro in ambiente domestico.

L’emergenza sanitaria per i professionisti della programmazione

Rimanendo nell’ambito della programmazione, i lavoratori che hanno subito un impatto maggiore sulle proprie abitudini lavorative sono quelli operanti all’interno delle grandi aziende: la metà ha dovuto lavorare da casa, contro appena il 25% fatto registrare dalle realtà produttive di piccole dimensioni.
A livello geografico invece, le zone in cui gli aumenti relativi all’uso dello smart working sono stati più consistenti sono quelle che di fatto non ne facevano uso o che sfruttavano questa modalità in maniera molto limitata. Parliamo in generale di tutto il continente europeo, soprattutto nei paesi dell’est e quelli che si affacciano sul mediterraneo, ma anche in alcune zone dell’asia, particolarmente impattate dall’ondata dei contagi e dalle chiusure.

 

 

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