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LETINO – La storia per onorare i soldati morti durante il brigantaggio postunitario

Letino (di Giuseppe Pace) – Letino, a differenza di altri comuni del Matese e altrove nel Mezzogiorno, non ha mai avuto un brigante né chi inneggiasse questo o quello dei contendenti durante il fenomeno del brigantaggio postunitario tra il 1860 e il 1880 con prevalenza del primo decennio. Forse solo una donna scappò o fu costretta a scappare con i briganti, ma rientrò poco tempo dopo a casa. Insomma lassù, sui monti del Matese, l’isolato paesetto di Letino era distante fisicamente e socialmente dai grandi fenomeni sociali che nascevano e morivano lontano. La stessa rivoluzione francese precedente, o quella dell’albero della libertà nell’ex regno di Napoli successivamente non appassionarono alcun letinese, sobrio ed attento a farsi i fatti suoi e a non immischiarsi in fatti, ritenuti di altri. Dunque un mondo, quello letinese, isolato tra i monti più alti del Matese, più che civile, che ha una sua storia non necessariamente brigantesca, anarchica o rivoluzionaria. Leggendo, il 7 c.m. l’articolo “Cultura storica. Carlo Filipello carabiniere dei Savoia finito emigrante” di Mauro Lucio Novelli, mi viene quasi spontaneo scrivere in memoria di quanti hanno servito lo Stato unitario, appena formatosi, e provenienti spesso dal Piemonte. Sul Matese ed intorno ad esso, troppa epica storica parteggia per i briganti e non per la reale storia. Non si onorano a sufficienza i militari morti negli agguati dei briganti né le tante guardie nazionali assassinate dai briganti (comandati da Domenicangelo Cecchino e Samuele Cimino di Roccamandolfi) come a Letino il 18 settembre 1861. Il saggio di Vincenzo Berlingieri, Storie di briganti. Il brigantaggio in Roccamandolfi. Domenico Fuoco, Associazione Culturale “Pasquale Vignola”, Riccia, 1991, è stato già da me commentato, in altro articolo, per aver negativizzato l’immagine della bella e tranquilla comunità civile di Roccamandolfi (IS). La banda di briganti, giunta a piedi a Letino da Roccamandolfi, lungo tratturi noti ai pastori di entrambi i comuni confinanti, dapprima disarmò il manipolo di Guardie Nazionali in servizio nell’isolato paesetto sui monti del Matese, poi umiliarono i cinque malcapitati poveretti, gli lessero una sommaria sentenza e li fucilarono davanti alla chiesa patronale nella centralissima piazzetta letinese. Per il brigantaggio postunitario si è scomodato perfino l’attuale Sindaco Pd di Vicenza, che ha chiesto scusa al suo collega di Pontelandolfo (BN) per l’”eccidio” (invece fu una reazione per i soldati assassinati in agguati dei briganti capeggiati da Cosimo Giordano) perpetrato sulla popolazione inerme dall’esercito comandato da un colonnello vicentino. I Neoborbonici ci vanno a nozze con la retorica e l’epica storica e fomentano ideologia partigiana contro lo Stato unitario ed inneggiano ai briganti. Molti comuni scimmiottano subito la moda del vittimismo piagnone meridionale e festeggiano i briganti, mai i poveri soldati e guardie nazionali caduti per assolvere il loro dovere chi li onora? Molti dimenticano che lo Stato unitario dovette impegnare migliaia di soldati per sedare una rivolta brigantesca di circa 150mila facinorosi ribelli alla leva militare obbligatoria (con i Borboni non era obbligatorio il servizio militare). Nel cimitero di Bojano (CB) un soldato veneto, del periodo storico del brigantaggio postunitario, scrisse una commovente lapide in onore del figlioletto morto prematuramente per malattia rivolgendosi al libero cielo di Venezia (solo dal 1866 il Veneto entra a far parte del Regno d’Italia). A San Lupo (BN) nel 1877 un carabiniere di servizio fu dapprima ferito e poi morì dopo i colpi delle fucilate dei

briganti anarchici capeggiati da Cafiero e Malatesta. La cosiddetta Banda del Matese, osannata dall’intellighenzia di Sinistra, anche attuale, sfuggi ai carabinieri appostati davanti alla taverna di San Lupo e fece una scorribanda sanguinaria in due paesetti dell’altissimo Matese: Letino e Gallo Matese, dove bruciarono i documenti municipali, la storia archiviata dei due comuni in nome di una fantomatica repubblica anarcocomunista che per prima cosa aboliva la impopolare tassa sul macinato. Dal Piemonte e dall’ex Lombardo-Veneto vennero moltissimi soldati in servizio di leva con sottufficiali ed ufficiali a combattere il disordine sociale causato dal brigantaggio postunitario meridionale. Il cosiddetto massacro di Pontelandolfo e Casalduni fu una rappresaglia ”moderata” del Regio esercito italiano ai danni della popolazione civile dei due comuni il 14 agosto 1861. La decisione di eseguire la rappresaglia fu presa in seguito al precedente massacro di 45 militari dell’esercito unitario (un ufficiale, quaranta fanti del 36° e quattro carabinieri), catturati alcuni giorni prima dai briganti e contadini del posto. I due piccoli centri vennero quasi rasi al suolo. Il numero di vittime è tuttora incerto, ma sulla base della lettura dei registri parrocchiali della chiesa della Santissima Annunziata ove sarebbero annotati dal canonico Pietro Biondi e dal canonico Michelangelo Caterini (firmatario degli atti di morte) i nomi dei morti, le modalità della loro morte e il luogo del seppellimento: 13 persone (undici uomini e due donne) sarebbero morte durante il giorno stesso della strage (dieci direttamente uccisi e due nel rogo delle case) e una tredicesima morì il giorno seguente. Il numero di 13 morti viene confermato nel 2016 dalla scoperta di una lettera d’epoca datata 3 settembre 1861 pubblicata sulla rivista Frammenti del Centro culturale per lo studio della civiltà contadina nel Sannio con sede in Campolattaro. L’autrice della lettera è la signora Carolina Lombardi, originaria di Pontelandolfo, sposata con don Salvadore Tedeschi, speziale in Campolattaro. Nella primavera del 1861 il brigantaggio si era ormai diffuso in tutto il sud Italia continentale, assumendo spesso le forme confuse anche di lotte contadine, spesso represse violentemente nel sangue. L’azione di contrasto venne in gran parte affidata inizialmente ai bersaglieri; dapprima ne furono inviati 11 nuovi battaglioni formati a seguito della riforma dell’esercito disposta col decreto 23 gennaio 1861 (mentre quelli che avevano partecipato alla campagna 1860-1861 venivano richiamati in alta Italia o inviati in Sicilia) a cui poi si aggiunsero in seguito tre battaglioni di veterani, di modo che al 25 settembre 1861 erano impegnati nella lotta al brigantaggio 17 battaglioni su 34 dell’organico complessivo dei bersaglieri. Ma leggiamo cosa scrive l’articolista citato prima: ”Carlo Filippelli è nato a Castelnuovo Don Bosco, in provincia di Asti, il 27 luglio 1839 e morto negli Stati Uniti il 16 marzo 1918. Essendo un Brigadiere dei Carabinieri, subito dopo l’unità d’Italia scese dal Piemonte per partecipare alla repressione del brigantaggio. Avendo conosciuto al Sud, in provincia di Caserta, all’ epoca Terra di Lavoro, la sua futura moglie Giulia Masciarelli, dovette lasciare l’ Arma , che all’epoca non consentiva di allacciare relazioni sentimentali con la popolazione locale” E da borghese quale lavoro intraprese in Terra di Lavoro? “Per alcuni anni, dopo essersi sposato, lavorò come enologo, ne aveva le competenze provenendo dalle colline dell’astigiano, presso i Galdieri, ricchi latifondisti di Conca della Campania, dove nacque mio nonno Carlo. Nei primi del novecento, dopo alcune discussioni con la famiglia Galdieri, perché intervenuto a difesa dei diritti dei lavoratori dipendenti, il mio bisnonno decise di emigrare negli Stati Uniti, dopo pochi anni lo seguirono in America tutti i suoi figli ad eccezione del primo, Edoardo Filipello, deceduto a Sessa Aurunca il 22 novembre 1937, Capitano dei carabinieri, il quale per diversi anni ha comandato la Compagnia dei Carabinieri di Sessa Aurunca”. A Guardiaregia (CB) due anni fa, in compagnia dell’ex maresciallo dei carabinieri di Bojano nonché cittadino onorario di Bojano, l’abruzzese Anacleto Goffredo Del Pinto, dovevamo assistere il Sindaco a presenziare un evento festoso estivo con gli emigrati in piazza Toronto. Del Pinto avrebbe (non fu più possibile per il notevole ritardo) dovuto leggere una relazione storica di un fatto inerente il brigantaggio postunitario tra Campochiaro e Guardiaregia e io presentare il mio libro dedicato anche agli emigrati locali. Mentre aspettavamo l’inizio dell’evento, il vicesindaco locale, ci fece osservare una grossa pietra utilizzata dai briganti per uccidere le guardie nazionali e i soldati durante il ventennio postunitario1860-1880. La fotografia, da me scattata e qua riportata accanto al carabiniere astigiano Filippello, fa vedere ai lettori come i comuni matesini e meridionali

mettono in mostra la sola retorica che inneggia al brigantaggio. Sembra un inno alla sottocultura che i comuni pagano con i soldi dei contribuenti onesti. Nel verbale dell’ex consigliere provinciale campobassano nonché ex maresciallo Del Pinto, tratto dagli archivi di Campobasso, vi erano riportato nomi e cognomi di alcuni preti locali che mischiandosi o cammuffandosi ai presunti briganti erano andati a derubare ricchi possidenti di paesetti vicini. Ciò per dire al lettore, soprattutto se giovane o indottrinato di monocultura filo brigantaggio postunitario, che nel fenomeno del brigantaggio c’era di tutto e non solo gli idealisti che rimpiangevano i reali Borboni e ne auspicavano il ritorno sul trono di Napoli. Il meridionalismo piagnone, purtroppo, non fa bene al nostro bistrattato Sud Italia. Bisogna rimboccarsi le maniche e fare cose buone e giuste nonché pretenderle da chi è preposto a farle nella Pubblica Amministrazione, che non sempre è trasparente, efficiente e a servizio delle comunità che amministra. La Questione Meridionale, non piagnona, era quella dello studioso Carlo Maranelli che ha scritto saggi sulla Questione Meridionale: “Carlo Maranelli, Considerazioni geografiche sulla questione meridionale; a cura di C. Barbagallo, G. Luzzatto e F. Milone, Bari, Laterza & figli, 1946. Esiste una sterminata letteratura sulla questione meridionale italiana che trova in Giustino Fortunato e Carlo Maranelli due modalità diverse d’interpretare i problemi e due modi di risolverli. Il primo, a fine 1800, vedeva con pessimismo geografico un sud condannato dal povero suolo e dai rigori climatici. Il secondo, nel primo 1900, voleva evitare che dal pessimismo di Fortunato si ricavassero conclusioni fataliste che significassero anche la rinuncia a una politica che avesse come suo proposito il miglioramento delle condizioni agrarie del Mezzogiorno. Gli fecero eco molti meridionalisti famosi come Manlio Rossi Doria, Francesco Compagna, Giuseppe Galasso, Giuseppe Coniglio, Giuseppe Cuomo, Pietro Coletta, ma anche meridionalisti minori come Vittorio Fiore, che scrisse di Aldo Moro e il nodo meridionale, di Francesco Caruso che scrisse sull’attuazione del regolamento Cee 270/1979, sulla divulgazione agricola, di Aldo Cervo che si interessò di vecchi e nuovi problemi dell’agricoltura meridionale nonché Gabriele Gaetani d’Aragona che scrisse di politica comunitaria e Mezzogiorno. Per l’industrializzazione meridionale e l’evoluzione urbana si interessarono: Tullio d’Aponte, Augusto Graziani, Mariano d’Antonio, Alfredo Testi, Salvatore Cafiero, Ernesto Mazzetti e Ugo Leone. Forse bisognerebbe far conoscere meglio ai meridionali la Questione Settentrionale nonché la reale legge Pica, dell’abruzzese Giuseppe Pica. La legge 15 agosto 1863, n. 1409 (“Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette”). La legge venne concepita per contrastare il brigantaggio postunitario e fu emanata in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto albertino, che garantivano il principio di uguaglianza di tutti i sudditi dinanzi alla legge e la garanzia del giudice naturale. Introdusse il reato di brigantaggio, i cui trasgressori sarebbero stati giudicati dai tribunali militari; essa inoltre fu la prima disposizione normativa dello stato unitario a contemplare il reato di camorrismo e a prevedere il “domicilio coatto”. Le pene comminabili andavano dalla fucilazione, ai lavori forzati a vita, ad anni di carcere, con attenuanti per chi si fosse consegnato o avesse collaborato con la giustizia. Approvata durante il Governo Minchetti e promulgata dal Re il 15 agosto dello stesso anno, la legge rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865. Tra i capi banda efferati spicca l’abruzzese Giuseppe Caruso o “Zi Peppe”, che uccise 124 persone in circa quattro anni di latitanza e fu anche uno degli artefici del massacro dei 15 cavalleggeri di Saluzzo e di altri 21 tra Melfi e Lavello. Nel 1863, assieme a Crocco, ed altri, si presentò dal generale Fontana, dai capitani Borgognini e Corona per stipulare trattative di resa, le quali non vennero mai concretizzate. La Storia non è epica storica né ideologia di destra o di sinistra, lo scriveva anche il meridionalista Tommaso Pedio in Economia e società meridionale a metà Ottocento, Capone Editori 1999: ”Le resistenze ad una revisione sistematica della nostra storiografia sono curiosamente molto forti ancora oggi, nonostante oramai si guardi al di là dei confini del proprio paese e si aspiri a diventare cittadini del mondo; spesso l’ostacolo è solo ideologico ma la storia non può essere studiata secondo le direttive del partito in cui si milita o di cui si condivide l’ideologia e il programma politico. Dobbiamo liberamente ricostruire il nostro passato anche se ciò significa porsi controcorrente con il risultato di non essere congeniali né agli storici di destra che di sinistra”. Pedio si allontanò anche delle interpretazioni esclusivamente

“banditistiche” del fenomeno del brigantaggio postunitario, leggendo invece gli eventi del 1861-63 come una vera e propria guerra civile. In linea con quanto scritto da F. S. Nitti, per Pedio gli eventi scatenatisi dal 1861 furono l’espressione della lotta dei «cafoni» contro i «galantuomini» scatenatasi grazie all’azione della ricca borghesia che era riuscita ad assicurarsi, anche col nuovo governo, lo status quo precedente. Altri meridionalisti appassionati furono Don Vincenzo Padula e Carlo Alianello, che scrisse, tra l’altro, il romanzo storico L’eredità della priora girato anche come sceneggiato televisivo. Con la proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) e la conseguente cosiddetta “piemontesizzazione” anche del territorio meridionale la situazione s’ingarbugliò per almeno un ventennio con l’ingrossamento delle file brigantesche. Nelle bande dedite al brigantaggio affluirono quindi: contadini senza terra, braccianti, ex soldati borbonici ed ex volontari unitisi ai garibaldini nel corso della Spedizione dei Mille, renitenti alla leva e delinquenti comuni, ma anche preti, poveri indebitati e donne. Rieccoci dunque al verbale dei carabinieri lettomi da Del Pinto, che l’Archivio di Stato di Campobasso o la storica biblioteca “Pasquale Albino” conserva tra i tanti. Anche a quest’ultima biblioteca citata ho donato, per fare memoria, il mio saggio”Letino tra mito, storia e ricordi”. Letino appartenne dal 1927 al 1945 alla Provincia di Campobasso e nel 1929 al raduno folcloristico a Campitello Matese, le donne di Letino e di Roccamandolfi vinsero una coppa per sapere cavalcare magnificamente asini, muli e cavalli. I letinesi, più tradizionali, portavano ancora ai piedi, unico gruppo là radunato, le scarpe simili alle cioce, fatte con pelli di animali.

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